Io vengo dalle zolle e dalla ruggine
dei vigneti, dal legno tarlato
e dalla robinia, dalle stoppie,
e dai rovi, dal volo delle poiane,
da uno scampolo di cielo
strappato a settembre
e dalle reliquie di un amen
Abito la roggia, il gracidare,
l’intonaco rotto e le litanie
delle aie al tramonto
quando il sole si frange negli occhi
Io sogno marine in burrasca,
ma ho un cuore di terra
e qualche crepa,
mani tese alle mani
e una parola sul punto di scivolare
*
C’è a volte nei talloni
una stanchezza antica
e tra le scapole una parola
smarrita alla vita prenatale
Era gergo di firmamento
e ancora persiste l’ineffabile
nel limite che inchioda alle radici
l’orizzonte del nostro camminare
Una finestra sul mare
sa la litania dell’acqua
e le conchiglie di pianura
nel golfo che fu delle balene
chè ad ogni erba di radura ora
Lo sciabordio si accorda
In lenta attesa: un grembo di terra
Ha richiami di riviera
Amniotica memoria il mio stare
*
L’irraggiungibile raspa in gola
E’ un martello conficcato
questo sentire docile alla gravità
Dormono i viaggi in fieri
accovacciati ai piedi
come cani fedeli
Nelle statue anche le vene
Hanno un pulsare teso
Il drappeggio della noia
infilza i silenzi inanellando
anafore di fumo
Frattanto agosto è una zinia che scolora
negli occhi dell’estate
Il trionfo breve del sole
che in gola ha l’autunno
*
Potesse un infuso di stelle
stornare il dolore in stille
lontane dagli occhi
sarebbe riavvolto il nastro
imbastito dal destino
Potessi sgravarsi il petto
in un respiro al fondo
dove riemerga il senso
sarebbe un inno di grazie
il tuo braccio che stringe la vita
senza crollare di fronte
E’ giusto morire nei passi
senza sostare al domani
Un germoglio conosce la strada
a sfioro del cielo il suo richiamo
Apicale ogni desiderio che reco
al centro del petto il terreno
Troppa acqua non chiedo
*
Quale profumo abbia la zagara
mi chiedo nella foschia dell’ora
Memoria d’olfatto mi inganna
allo svanire della luce nei passi
Chiudo gli occhi ogni volta
che il mondo ferisce lo sguardo
Da madre superstite ricordo
il vagito tardivo del figlio
mentre chiama ora una voce
ormai maschia: mi manca
la prontezza delle foglie
avvezze a cadere, senza detonazione
Recensione di Armando Saveriano
La bellezza di questi testi di Ilaria Sordi
s’intesse dentro un’armonia distesa e estesa che non collassa né rischia l’eclissi perché si muove su paesaggi personali, su passaggi di grande intensità, dove emergono scatti musicali e appaiono lampi d’immaginazione che non travalicano la realtà. La parola nuda e profondamente lirica non abbandona il compasso di una sorveglianza naturale e morbida. La sua non è una dialettica d’occasione, perché nella narrazione/interrogazione mai cede la vocazione e soprattutto mai vien meno la “necessità” dello scritto; uno scritto di costante nudità e profondità della parola, che non si innacqua nella dispersione di ramificazioni esplorative effettistiche, superflue e narcisiste. Ila ha una storia da raccontare e da raccontarSI senza compromessi, con una fluenza (e un proprio attrait) che contemporaneamente attraversa e sublima il quotidiano, il piccolo, il familiare. Eppure Sordi laddove approda effettua un “lavoro di miniera”, come Chandra Livia Candiani riassume la militanza in Poesia, e come chiama la Poesia stessa. Un lavoro, il suo, registrato su piani alti e sinceri e autentici della coscienza contrapposta all’Id. Atto ponderato e propositivo con una panoramica che alterna acume e spiazzante ingenuità/purezza. La poeta affida al lettore un canto elegiaco che non demistifica, non desacralizza e nemmeno ammicca a un sovrappiù di allegoria e metafore additive. Una autrice da scoprire volta per volta, una poeta che non ci tiene a far colpo sul lettore o sul critico; le interessa solo il peregrinare di una woman of no importance, tutt’altro che vezzo o posa. Ma Ila ha occhi acuti, voce salda, calamo, inchiostro e pigmenti nel sangue che attribuiscono al ruolo della Poesia valore del pensiero-cuore che giammai l’hanno abbagliata e/o distolta. È detto che il cielo è grembo, culla amniotica, icona, archetipo. La “persistenza” citata, evocata/invocata, scongiura il pericolo di una inconscia paura ancestrale e diffusa nello sconcerto dell’istanza intrapsichica dell’Id che il cielo possa “cadere”, possa sparire, rivelando il vuoto e il gelo e il cieco nero dell’insostenibile “oltre”. L’io della poeta è l’antidoto a questo “bafariano” terrore, essendo potenziato da tensione storica e dalla passione, una passione etico-culturale. Ciò si evince dalla raccolta nella sua interezza, e per testi esemplari: a pp. 19, 21, 30, 31, 41, 50, 53,69. Sordi consegna ai posteri i soprassalti suoi del sentire sia nell’enunciazione e nell’intensificarsi del senso (“ Le finestre accese bisbigliano sparute/al colmo della notte/Ci sono amori abbozzati e sospesi senza luogo e senza compimento/di cui sanno le cortecce odorose/e le primule schive e curiose/Germogliano nel silenzio indifeso/e spoglio delle attese, quel silenzio nudo/e senza nome, nell’eco amplificata/di un momento rubato allo scorrere del tempo…”) sia nel conturbante prevalere del suono interno, esile e penetrante come in una favola delicata, in un mito sussurrato nella pausa del vento (“Arriva il tempo dei campi di grano/di quel mare giallo che amo/Ed è già tristezza lo stelo/mozzato del capo dorato/Le stoppie a graffiare la pelle/La pula a gridare alle stelle”). Impreziosito dalla lunga e particolareggiata prefazione di Giuseppe Cerbino, “La persistenza del cielo”, per i tipi di Lepisma Floema (pp. 80) Euro 10,90 – 2019, è una silloge di risonanze privilegiate, nitide di immagini, dal dettato di eccezionale trasmissibilità. Si deplora la mancanza di indice, probabilmente però omesso per esigenze di sedicesimo, e si auspica che la poeta, già spontaneamente cauta nell’adoperare la (superflua) punteggiatura, ne maturi in avvenire la definitiva soppressione-
Armando Saveriano
-LA PERSISTENZA DEL CIELO - ILARIA SORDI - CONTROLUNA EDIZIONI 2019 - PP. 80 - EURO 10,90