CHEESEBURGER POMODORO A FETTE E UN MUCCHIO DI PATATINE

 

Questa fiaba è da considerarsi un bonus, e neanche gli amici che hanno curato per “Frantumi” prefazione, postfazione e note critiche l’hanno avuta in lettura.

Il tema dei genitori disamorevoli che si sbarazzano del vecchio (benché soave) patriarca, ritenuto ormai inutile e ingombrante, e quello del mondo fantastico in cui si rifugia una ragazzina malata di leucemia, sono i perni classici intorno ai quali può ruotare una storia che fa sognare.

La speculazione sull’autismo come dissonanza fra tempi di percezione su due differenti piani sfalsati mi è parsa affascinante, benché mi sia limitato ad accennarla. Il contatto segreto e speciale fra le due bambine mi ha permesso di narrare una vicenda nella vicenda, per cui il primo dramma, quello di Norma, diviene subplot rispetto a quello di Irina.

L’atmosfera onirica e la magia hanno un ruolo specifico e risolutorio nel racconto di Irina; ma anche la “ripresa” di Norma è come il risveglio da una sorta di incantesimo, grazie al sortilegio dell’impreve-dibilità –ma se preferite, dell’amore.

Realtà e immaginazione si rincorrono sulla stessa pista, e come sempre accade, fanno comunella; la telepatia, l’empatia profonda trovano corrispondenza e contraltare nel grande altro demiurgo familiare e casalingo che ha sostituito la fantasia e l’illusione dei “cunti” intorno al camino acceso e crepitante d’emozioni perdute, ma che accoglie e ospita, amplificandole, entrambe : la televisione.

Lì, per un attimo, per l’ultima volta, personaggi e storie si intercettano, in un rapido, rassicurante saluto.

La dottoressa Imbriani accompagnò i coniugi De Stefano fin sulla soglia, manifestando un sorriso di comprensione e di solidarietà, che sapeva di sprecare. Mentre Ettore De Stefano coglieva tra le parole della Imbriani uno spiraglio di fiducia, sua moglie Carla era sull’orlo delle lacrime.

Non disse niente, troppe volte aveva singhiozzato in un’aspra ribellione verso Dio, si era crogiolata nell’autocompatimento, dissimulando appena appena (Ettore ne tremò) una forma di ostilità e di rancore nei confronti della piccola Norma.

“ Perché non è come tutte le altre?”

“ Perché proprio a noi?”

Ettore pensava puntualmente a suo fratello Sergio e alla cognata, Melinda, alla loro tranquillità. Non li aveva mai sentiti inveire, compiangersi per avere messo al mondo un down.

O levare i pugni contro Dio. Alessio era un bambino felice, che riempiva d’amore le loro giornate.

Carla non aveva mai accettato quello che era accaduto a Norma.

Era una frugoletta di porcellana, Norma, dagli occhi imperscrutabili. Cosa si nascondeva dietro di essi? Ettore avrebbe voluto scoprire perché, a cinque anni, sua figlia avesse smesso di parlare, di comunicare, di riconoscere chi le stava intorno. Era persa in se stessa, senza essere altro che una bambina bellissima, dalle proporzioni perfette. Persino Alessio era più vivace, al confronto.

E  Norma non era down.

La bambina si vestiva da sola, accuratamente. E usava i pastelli per tracciare segni e strisce su una montagna di fogli da disegno. Nessuno riusciva a penetrare ancora il suo mistero.

Autismo. Quella definizione rimbombava come un tuono a rotolare dalle montagne. Era la croce che Carla si rifiutava di sostenere, qualcosa che teneva Ettore sveglio di notte, a elucubrare una soluzione, non disperando.

Nella luminosa saletta che ospitava bimbi come lei, Norma sollevò il mento, sfregò sistematicamente sul Bristol i polpastrelli macchiati di azzurro e di verde: i colori che preferiva.

Sapeva che quelli erano i suoi genitori. Erano così distanti da lei! La guardavano come dall’occhio rovesciato di un cannocchiale, movevano le labbra velocemente, troppo, dicendo cose su cose a un tono bassissimo,  incomprensibile, che non arrivava alle sue orecchie.

Lei e gli altri erano come su un piano dimensionale sfalsato.

Tornò al racconto della sua amica. Lei sì che si faceva capire. Norma avrebbe persino potuto toccarla.

Per tutti gli altri, tranne che per Norma, Irina sarebbe stata una assenza, un’invisibile. 

Ascoltò educatamente tutto quel dolore.

 

Quando, origliando, seppi cosa avevano intenzione di fare i miei, corsi a rifugiarmi, incredula, stordita, delusa, in camera mia. C’era qualcosa che m’impediva di piangere, mentre qualcos’altro premeva per erompere, selvaggiamente.

Ma ero una bambina timida, molto chiusa. L’amore e l’odio non sapevo esprimerli. E solo pochissime persone riuscivano a sintonizzarsi sull’onda della mia fasciata tenerezza, e ancor meno captavano le mie feroci collere, schermate dalle ciglia lunghe, senza che il broncio mi tradisse.

Il mattino in cui papà e mamma aiutarono con chiaro sollievo il nonno a salire in macchina, sul sedile accanto al guidatore, io mi lasciai appena sfiorare dall’ultimo bacio suo, mentre ricambiavo con una muta promessa.

Il giorno dopo, approfittando della loro pennichella, e della distrazione di Claretta, la domestica, me la filai via di casa. Imboccai la scorciatoia per il bosco. Non ridere: pensavo a Cappuccetto rosso. Solo che non avrei incontrato il lupo. Sapevo dove andare. Nella tasca posteriore dei jeans tenevo tutto quello che avevo potuto raggranellare: una catenina d’oro, degli orecchini, trentacinque euro.

La principessa delle sabbie mi aveva sussurrato un nome. Mi aveva indicato la strada.

Faticavo a camminare. Ma dovevo fare in fretta, prima che pensassero di telefonare ai carabinieri, al pronto soccorso o che so io.

S’era levata un’arietta dispettosa, ma sotto la cuffietta non avevo capelli che il vento potesse scompigliare.

Quando ero stata ricoverata, il nonno era venuto a tenermi allegra tutti i giorni, con i suoi giochi di illusionismo. Mi aveva convinta che la mia ultima Barbie parlasse, movesse la testa a rassicurarmi con un sorriso. Io l’avevo battezzata “principessa delle sabbie”, perché era abbronzata e aveva minuscole pagliuzze scintillanti come particole nelle dune sotto il sole.

 

“Andrà tutto bene” – mi rassicurava. Ed io le pettinavo i lunghissimi capelli biondi, non pensando più alle mie ciocche brune che cadevano via.

Ero spossata. Avevo terrore di specchiarmi e vedermi così diversa da Barbie-principessa-delle-sabbie.

Avrei voluto che l’unicorno alato esistesse davvero, per montargli in groppa e arrivare in un battibaleno a casa della Zingarella.

Non era proprio una ragazzina, sai. Il volto era liscio, sembrava una maschera neutra veneziana appoggiata sulla vera faccia nascosta. Forse qualcuno l’aveva sfregiata. O dell’olio bollente le era schizzato in faccia. Oppure era inverosimilmente bella, tanto bella che a viso scoperto avrebbe rischiato di abbacinare gli altri.

In casa sua non ribollivano brodaglie che lei mescolava nel calderone. Non vedevo da nessuna parte la boccia di vetro, eppure lei mi aveva vista arrivare, e rispose senza bisogno che facessi domande.

Mi prese la tosse all’improvviso. Misi la mano in tasca e porsi alla maga il mio tesoro.

Lei scosse il capo.

“Non voglio questo” – rifiutò l’oro, i soldi. “Voglio questo e questo”- indicò, e io accettai.

Il tempo si stava guastando. Minacciava pioggia. Non potevo fare tardi. Non dovevo sentirmi male e venire meno proprio fuori di casa. Papà e mamma avrebbero scoperto tutto, e allora non ci sarebbero più state speranze per il nonno.

La Zingarella mi sussurrò le parole, ed io le conservai sotto la pezzuola calda e umida della mia lingua. Non avrei dovuto parlare, prima di aver sparpagliato l’incanto. Non avrei dovuto neanche provare a schiudere le labbra.

Durante la strada, al ritorno, quasi stavo andando a sbattere contro l’inevitabile catastrofe: un’automobile mi sfiorò, strombazzando, e immaginai più che udire gli improperi del guidatore, un ometto striminzito, che a stento toccava con la fronte il volante. Guai se avessi gridato! Avrei perduto le parole.  E  nessuno, neanche la Zingarella, avrebbe potuto ridarmele.

Il peggio doveva ancora venire.

“Irina!” – mi sentii chiamare. 

Conoscevo bene quella voce. Era la strega delle colline. Almeno, io la vedevo così. Un lungo naso a becco, i denti sporgenti, gli occhi tondi, da rapace notturno e da maestra elementare carogna, alta alta sui sottilissimi tacchi delle scarpette di vernice, le unghie posticce e una bocca impicciona dalla curva maligna. D’inverno sfoggiava le pellicce di tutti gli animali che potessero fornirne: dal visone all’ermellino, dall’ocelot al giaguaro.  Era più brutta di Crudelia Demon.

Avrei voluto essere il suo gatto per cavarle un occhio.

“O madonna celeste, perdonami!” – supplicai mentalmente Maria, e recitai in silenzio un atto di dolore.

“ Che cosa fai, in giro, a quest’ora?”

La strega delle colline già armeggiava con il telefonino, certo per avvisare i miei, chiedere spiegazioni sul fatto che fossi sbucata da un quartiere dove gironzolavano Rom e malfattori, io piccola e tanto malata.

Mi ricordai della polverina. La Zingarella era stata previdente.

“Usala su qualcuno che potrebbe indurti a parlare” – mi aveva consigliato, porgendomi un sacchettino giallo ocra. “ Avrà altro a cui pensare!”

Ne bastò un pizzichino. Forse il resto avrei dovuto riservarlo a qualche seccatore in lista d’attesa...

La strega delle colline lasciò andare il cellulare e fece uno sguardo opaco, assunse l’espressione stralunata di chi non sa dov’è e cosa sta facendo.

Girò sui tacchi, oscillando, e continuò per la sua via, scordandosi completamente di me.

Per una volta fui contenta che anche i miei genitori fossero scorderelloni, con me.

Cominciavano i dolori. A salirmi dalle ossa. A riverberarmi nel cervello.

Non potevo prendere le medicine. Non prima che avessi compiuto la mia missione per salvare il nonno.

Credo che i miei aspettassero con pazienza che mi levassi definitivamente di torno.

Quando mi avevano adottata non sospettavano minimamente che avrei preso la leucemia.

Forse adesso si illudevano di poter fare un figlio loro.

Ma prima era meglio che scomparissi io.

Mammina si allenava a piangere nel bagno.

Forse nell’armadio aveva già ficcato un abituccio nero, semplice ma elegante.

Gocce di pioggia mi sorpresero a metà strada.

Mi sarei inzuppata. Magari avrei preso la polmonite, che avrebbe accelerato le cose.

 

Mamma avrebbe finto di chiamare la guardia medica, e avrebbe dimenticato la finestra socchiusa, la porta aperta, per creare una corrente.

Il babbo mi avrebbe fatto ingoiare le compresse, assieme a un cucchiaino di miele, felice di essersi già sbarazzato del vecchio padre. Quello zoppo si era troppo affezionato a me. E io ero ormai un giocattolo rotto, che lui e la mamma si vergognavano di esibire.

Per rincasare adoperai la chiave che mamma nascondeva tra i sassolini della grande gerbera in giardino. Salìi quatta quatta le scale e entrai in camera del nonno.

Cercavo il suo berretto da notte. Sapevo che non l’aveva portato con sé alla casa di riposo dove i miei l’avevano recluso. Era in quel berretto di lana che avrei dovuto sussurrare le parole e rendere efficace il sortilegio.

Sapevo che avrebbe funzionato, che la Zingarella non si era presa gioco di me.

Tornai in camera mia, e accarezzando la principessa delle sabbie mi assopii.

A svegliarmi fu il tocco fresco delle dita…delle dita del nonno! Era lì, inginocchiato accanto al mio lettino, con il ciuffo di capelli bianchi che gli ricadeva su un occhio birbone, e il gran sorriso di sempre.

 

“Nonno!” E gli gettai le braccia al collo sentendomi tanto Heidi nella baita sulle montagne bianche e verdi,  lontana dal mondo che non capivo e che rifiutava me.

“Sono qui, scimmietta.” Mi sussurrava lui, sollevandomi tra le braccia forti, il corpo rinvigorito di almeno quindici anni. Non zoppicava più! Il bastone era stato abbandonato in un angolo sconosciuto, chissà quando e dove.

La domestica aveva fatto le sue ore ed era andata via, senza concedere un minuto in più alla clessidra svizzera che le indicava il momento preciso in cui doveva mettere e poter togliere il grembiule. Eravamo soli. Baciai il nonno e scivolai dalle sue braccia.

“ Dove vai?” –chiese – “ Mangiamo qualcosa. Hamburger, fette di pomodoro e patatine. Ti va?”

“ Certo che mi va. Torno subito. Un momento solo.”

 

Corsi nello studio del mio padre adottivo. Ammetto che il cuore mi batteva forte. Lui faceva l’entomologo: ordinate in file un tantino macabre si allineavano le sue teche piene di insetti morti, trafitti  dagli spilloni.

Non dovetti faticare a cercare e a trovare ciò che mi aspettavo.

Come erano buffi, ridotti così. Tutti e due. Papà e mammina.

Sorrisi. Pensai alla Zingarella, la ringraziai gonfia di gratitudine e mi richiusi la porta alle spalle,  pregustando Cheeseburger e cartoni animati col nonno.

Tu sei stata buona con me, Norma. Mi hai ascoltata. Il tuo cuore ha palpitato con il mio. Adesso sono felice, anche se morirò, e dovrò dare al nonno un grande dolore. E a te un dono.

 

Norma depose con gentilezza il cucchiaio sulla salvietta verde e rosa, quella con la sua sigla ricamata, afferrò il bicchiere con l’immagine di Clarabella stampigliata su un lato, e prima di bere un lungo sorso di pepsi, disse:

“Sapete che non mi piace proprio la pasta e piselli. Posso avere un bel Cheeseburger con pomodoro e patatine?”

A Ettore sfuggì di mano la forchetta, e se ne restò impietrito, incredulo, col giornale piegato alla pagina sportiva.

La televisione era sintonizzata su un canale satellitare che mostrava un uomo attempato, dalla complessione ancora atletica, che teneva delicatamente per mano una bambina patita, ma illuminata di gioia, con una cuffietta sulla testolina. Erano in un parco giochi pieno di gente adulta e di bambini vivaci, forse a Disneyland.

Carla emise un gemito strozzato mentre si tirava lentamente in piedi, il volto indeciso tra pianto e riso. Tese le braccia tremanti verso sua figlia e farfugliò qualcosa, forse scusa. Scusa a Dio e a tutti gli uomini e le donne veramente sfortunati, mentre Norma, tutta contenta, faceva tintinnare le posate contro il piatto piano, che aspettava di essere riempito.

 

Con Cheeseburger, pomodoro a fette, e un mucchio, un gran mucchio di patatine.

 

 

Armando Saveriano