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LA VIE BRAQUE

La vita può essere balorda in sé, rivelarsi tale; più probabile –e comune– il renderla balorda da parte di chi balordamente la vive: in maniera sciatta, dissennata, sconsiderata; pertanto l’esistenza beccheggia nello spreco, nel mulinello dello sciupìo, tra i flutti dell’errore, ancorandosi a scelte disgraziate. Non manca il concorso dell’accidia, dell’inerzia, dell’inettitudine, della pusillanimità, di un torpido fatalismo frenante, delle fobie più ingegnose e lesive. Scagli la prima pietra chi mai ha dubitato d’aver impostato male il suo personale (effimero) passaggio su questa terra. Di qui lo stordimento, lo spaesamento, l’incertezza che diventa cronica, il disagio, la disidentità e la disappartenenza, il senso di colpa, l’oscuro istinto di espiare, la ricerca di uno scopo, di un appiglio, di una meta; il risentimento, la rabbia, la voglia di tornare indietro a riaggiustare le cose, quante più possibile, salvo incappare in altrettanti sbagli, magari di peggior effetto! The guilts ci cingono d’assedio, scalano le mura della nostra difesa di fragilità, ci franano addosso; si ritraggono per riattaccare più minacciose e aggressive. E sull’orlo del baratro, puntualmente ci mangiamo i gomiti, “sick of our lives” stanchi delle nostre vite sbandate, inconcludenti, con la sensazione di essere degli eterni perdenti, dei serial losers, vittime e martiri del “pain of living”; oppure scoprirci disperati aguzzini, boia di altrettanti bastardi inciucati o impecoriti. Questa la maledizione che grava sulla stragrande maggioranza della meschina, afflitta, raminga umanità! Poeti e filosofi ne sono i più consapevoli, e quelli disposti a confessarlo, a confermarlo, anzi, ad urlarlo, o addirittura a compiacersene (nel caso degli scrittori) come esibendo il morso masochista del cilicio. Sei Poeti fuori del coro, particolarmente maudits, per condizione reale, sofferta, e non per posa, per atteggiamento, per modaiola artefazione, hanno spillato il filone del’angst e dell’hate; disprezzo per l’umanità e odio, forse schifo –e una sottotraccia di pietà di commiserazione, che è anche e soprattutto auto-commiserazione – verso sé stessi. Una non rara venatura d’assurdo, di surreale, e una ventata di grottesco, di sarcasmo una piega sardonica, denunciano la natura imprevedibile, bizzarra, contorta, beffarda, infernale dell’esistenza; un’esistenza a cui non basta l’invenzione di un dio (irrintracciabile), la ricerca affannosa, ininterrotta e patetica di un senso (introvabile). Dovremmo, come gli animali e le piante, essere graziati dal limite della sola percezione dell’esistere e del perire, senza coscienza d’essere e finire; invece, l’anima di cui siamo dotati, se per anima intendiamo l’intelletto, la personalità, la coscienza e la consapevolezza, le inclinazioni e i desideri, i timori e le fobie, ci condannano a porci domande pericolose e nocive e a cercare impossibili risposte, utopiche soluzioni, o scappatoie rocambolesche; fughe dalla sofferenza, dal peso dei sentimenti e dallo stillicidio emozionale, diserzione dalle responsabilità, dagli obblighi morali, dai codici normativi; allontanamento della vecchiaia, del decadimento e del degrado, della malattia; escape dai complessi più assurdi, dalle paure immotivate, a cominciare dalla filofobia (timore che qualcuno ti si affezioni), dalla allodoxafobia (timore d’imbattersi in chi la pensa diversamente), dalla tropofobia (paura di tutti i cambiamenti), dall’isolofobia (paura dell’isolamento, per sventura, per accidente o per destino), dell’epistemofobia (timore di non capire). Ma la paura somma, e quindi la distanza da essa più clamorosa, è quella della finitudine, scotomizzata o esorcizzata come astratta e puntualmente <altrui>,  inconcepibile, insostenibile, aliena da noi, creature antropocentriche, orgogliose, supponenti, egotiche, violente, predaci, ambigue, contraddittorie e tragicamente segnate dall’inessenzialità. Perché il mondo…l’universo, il sistema cosmico… ha fatto e può ancora e sempre fare a meno della nostra ingombrante e parassitaria presenza (Covid docet).

 

Armando Saveriano

Ogni martirio vive nel silenzio

 

Non vedo edifici crollare

grandi onde demolire i moli

fenditure infiltrarsi al nucleo del pianeta

eppure il mio piccolo mondo geme di un dolore profondissimo

e avvizzisce nero e muore

mentre il bosco brilla di lucciole

e la grande avenue danza di taxi gialli

e i cori risuonano in ogni navata

e nessuno

nessuno ascolta questa pena

ancora più insopportabile

nel punto morto tra lo slancio di un'altalena

e il suo allegro ritorno.

Ogni martirio vive nel silenzio. 

 

*

 

I nodi che non si sciolgono

 

Una casa in silenzio di notte

un uomo in canottiera

una goccia nell'acquaio in cucina.

Tic, tic, tic.

L'uomo non si accorge, fa programmi.

Tic, tic, tic.

Fa programmi senza sapere se passerà la notte

non è ironica questa attività?

Fa programmi e non sa quanta vita gli resta

del resto è tutta qui la vita

programmi da disfare al mattino

e tempo regalato

tutto qui, e non è poco.

La donna entra in cucina

è molto bella

lei crede di essere sfiorita

è ancora molto bella

la bellezza è sempre inconsapevole

o non è vera bellezza

solo ostentazione.

Non riesco a dormire, mi faccio una camomilla.

Prima dormivi.

Prima, adesso non riesco.

E’ la confusione.

Quale confusione.

La confusione nella testa.

Si, nella testa.

Facevo programmi, sai.

Non fare programmi, te l'ho detto tante volte.

Lo so, non posso farne a meno.

Tanto non serve.

L'uomo la guarda

lei gli da le spalle

vorrebbe baciarla come una volta

ma certe cose non possono ripetersi

i tramonti si ripetono

la pioggia, le costellazioni ogni notte

la natura si ripete sempre

ha una sua piacevole regolarità la natura

le cose degli uomini finiscono

un giorno alzi gli occhi e non ci sono più

vorrebbe baciarla e il tempo è scaduto

è andata via da quella cucina

lei scalda l'acqua sul fornello

senza esserci davvero

è tipico delle donne

a un certo punto se ne vanno senza accorgersene veramente

ci mettono del tempo a capirlo

a volte davvero tanto tempo

poi si battono la fronte con la mano e fanno:

E’ ora di andare

ma erano già andate via da tanto tempo.

Anche la donna in cucina

non è in quella cucina

non è con il suo uomo

che non è più il suo uomo

potrebbe andare via

versare la camomilla nell'acquaio

battersi la fronte con la mano e dire:

E’ ora di andare

ma ha una funicella legata alla caviglia

è un'esile funicella

ma con un nodo molto resistente

l'ha fatto lei stessa resistente

ora non sa più scioglierlo

è tipico delle donne

molto brave a annodare

molto meno a sciogliere

ci vorrebbe un coltello.

C'è un coltello in cucina?

E’ pieno di coltelli in cucina.

Non ne vedo nessuno.

Come fai a non vederli, sono davanti a te.

Non ne vedo ti dico.

Allora forse mi sbaglio.

Lei si volta e ripete:

Non ne vedo nessuno.

L'uomo potrebbe alzarsi e prenderne uno

ma pensa che è meglio di no

è una funicella esile

ma un nodo molto resistente

e i coltelli feriscono

hanno questa proprietà i coltelli

quasi una volontà propria

si fa presto a ferirsi

lui non ha voglia di ferire

un tempo non gli sembrava difficile

prendeva un coltello e colpiva

poi le cose sono cambiate

le cose cambiano continuamente

non c'è regolarità nelle cose degli uomini

non c'è da fidarsi.

Ti ricordi di quella volta in metro?

Quale volta.

Quella volta.

Mi hai baciata.

E’ stato un bel bacio.

Si, un bacio fantastico.

Vuoi una camomilla?

E’ una domanda lecita

se non puoi più baciare

puoi sempre prendere una camomilla insieme

prenderla insieme è un po' come baciarsi

se non sai più come baciare

meglio di niente alla fine

meglio che ferirsi

le cose cambiano di continuo

e ti accontenti di piccole cose

pur di non sciogliere nodi.

Vieni a letto?

Comincia a andare, vengo tra poco.

Lascio qui la tazza. Nell'acquaio.

Tic, tic, tic.

Lei chiude la porta

lui fa inutili programmi

la funicella è ancora lì

potrebbe spezzarsi ma ha un nodo forte

loro non ricordano come slegarlo.

E i coltelli feriscono sempre.

 

*

 

Sogno di una notte di mezza estate (oppure vita)

 

Non ricordo più se fosse vita

sono abbastanza sicuro di averne avuta una

ricordo come in un sogno le sere in strada

era un sogno credo, almeno credo

c'erano luci e locali aperti

e c'eri tu in quella vita

sono abbastanza sicuro ci fossi

avevi gonne strette

e grandi borse di pelle

le ricordi quelle sere?

Il vino bianco

i menu con copertine gialle: Si rideva

oddio si rideva allora

ti ricordi anche tu che ridevamo?

Mi sembra proprio di ricordare quella vita

oppure era un sogno di mezza estate

forse tu eri Elena

io Puck

magari era la vita chi può dirlo

non sono sicuro in questa notte buia.

E tu ricordi?

Dimmi.

 

Era la vita?

 

Pierfilippo Agosti

L’ORA DEL BUIO

 

Nell’ora del buio

lavoro col ritardo del tuono.

Silenzio

ancora silenzio

ancora.

Quel dolore crea la piega

e si fa largo, diverge, contorce

satura, dilania, cresce

e cresce.

Nella quiete delle cieche stanze

la seduzione diventa metodo

l’indifferenza un mestiere.

Cado, cade.

Fa male, troppo male

vive e non muore

sgretola soltanto.

Poi ritorna il buio

e si fa ancora buio.

 

*

 

ASSASSINIO

 

L'avvento porpora tra le scapole

ha sancito l'arrivo dei coltelli

sfregio su sfregio arriverò dritto al cuore

non temo l'acciaio delle tue vertebre

nè tantomeno la vendetta della serpe

che sibila fiera tra le rughe delle tue ghiandole

l'assenzio arresterà solo la sete della morte

ma il succo del tuo ventre mi darà più gratificazione

assumi la posizione del vitello

gracchia l'urlo di chi non aspetta il dopo

berrò fiumi di fisiologica

disinfetterò ogni bicchiere consunto

aspetterò a braccia conserte

Orfeo ed il suo fallimento

Euridice ed il suo goffo incedere

riderò di loro quando dalla rupe dell'Altissimo

ti griderò in faccia:

"Sono il primo e l'ultimo dei perdenti".

 

*

 

SFOGO

 

Ti offro il mio dolore migliore

in cambio della stanchezza dei tuoi deserti

della tua gracile solitudine appartata

della tua gioventù appassita a suon di notti.

Vuoi la mia pelle?

I miei scarti?

Il sangue nascosto di vergogna sotto le unghie?

È questo che vuoi?

Dimmelo!

Imbratta le pareti col tuo desiderio da donna

sottrai al pavimento ogni base d’appoggio

e facciamoci assassinare dalla gravità,

lubrifichiamo le nostre esistenze con vuoti da riempire, ma

parlami!

Urlami!

Inveìsci!

Smembrami!

La tua assenza mi consuma

sta levigando ogni spigolo dove la mia testa si puniva

costringe i minuti a diventare ore

e le ore diventano un sempre qualsiasi…

ti prego, resta!

 

*

 

IO E JACK

 

Ad essere invisibili son buoni tutti

recidere a piacimento i fiori narcisisti

e devolvere ogni pensiero al fumo,

per questo aspiriamo all'errore indimenticabile.

A piccoli sorsi di Jack

mi avvio verso quella cancrena che vedo laggiù

accanto al tramonto

- sarebbe tramonto questo? -

Ho capito, finisco la bottiglia.

Da ubriaco rendo meglio

devìo discorsi morti sul nascere

sputo in faccia a qualsiasi politico in tv

e mangio curcuma avvelenata

tanto chi mi vede...

Tu?

Lei?

Noi?

Sbiadiscono i graffi sulle pareti

blando mi avvicino al dolore perfetto

con le vipere sul petto

ed un languore agli angoli della bocca

che schiuma una rabbia italiana

di quelle che morire è meglio

se la vita rimasta è solo quella

che non fa precipitare i pantaloni.

 

*

 

(IM)MONDO

 

Temperami il cuore con la punta delle tue dita

distilla il sangue avanzato

aiutami a soffrire meglio.

Il grembo lunare mi rifiuta

l'immondizia sociale collassa

rimescolami le ossa spezzate.

Non ho rigurgiti da offrirti

nè pelle su cui ricamare nuovo odio

solo verità puttane.

Da usuraio del silenzio

mi offro volontario

nel mondo che tace.

 

*

 

Non trovano spazio questi vuoti

l’agonia recitata dalla terra

fa solo da contorno ad una lucidità essiccata

deforme è la realtà

deforme è il teatro

M’abbandono ad una lenta medicazione

del coagulo che ingiallisce un foglio scritto

e traggo dai resti della memoria un frutto amaro

quel vento vestito a festa che si dimentica delle domeniche

Ho subìto fin troppo l’educazione dell’inverno

un’aria bugiarda che mi riportava indietro continuamente il suo nome

ed ora in piedi sul pelo dell’acqua

prego affinchè il fiume carezzi l’onestà della confusione

sbricioli le esche a forma di preghiera che mi attraggono

e capisca da un semplice respiro la digestione d’un’intera sofferenza.

 

Michele Carniel

QUATTRO PASSI, DENTRO E FUORI CASA

 

 

Immatricolato gemellato nel petalo scritto

Ora il freddo mi fa angolo di cornice

Non di gelo mancante di ginestra marittima

E casa vuota di una vacanza mancata della quale intascare la nostalgia

Neanche di quel tetto di tegole impassibile alla cui ombra muovevo passi

In condizioni di tempo riconsegnato al disfacimento degli intonaci

No – quel freddo di sentimento che dietro una sola foglia riesce a nascondersi

Quel ghiaccio di parola muta agli antipodi dei girasoli

Me lo avvolgo intorno alla sfuggevolezza di scapola

Ha il medesimo profilo di bronzo di cui mi facevi racconto?

Si siederà sulla sabbia dei sentimenti coi lineamenti velati di plastica?

Non fa luce se non su un tappeto di manifattura non mia

Che inchiostro sbadato e polvere distratta regala al piede che lo calpesta

Per ogni vaso un rametto d’ulivo acqua nulla neanche stagnante

Quell’acidità di agrume profumata di forma vuota

Un cero accendo per ogni anno consegnato sfregiato nella forma

Che non ha saputo tenere il mare con prua sapiente

Dimentico del vetro colorato di altre cromatiche ali nel cielo

A te e alla tua voce che non conosco mi attorciglierei

Apriamo insieme un’anta – cosa ci vedi dentro?

Bicchieri pessimistici semivuoti dai quali non si può più reclamare un brindisi

Io tento di riscaldarmi a memorie che hanno smarrito scintilla

Un piede dietro l’altro appoggiato alla soglia

Non sarebbe bellissimo se quell’uscio m’accogliesse intero

Senza chiave senza geometrie strane senza spigoli per ferirsi

Di medicine ne ho bisogno ora – ma tante – antipiretici disinfettanti

Gastroprotettori cerotti sagomati per non vedere l’imperfezione della cicatrice

Sconosciuto ora quel sangue di mestruo non attrae la vagina che lo genera

Lascio qualcosa alle spalle? Davanti allo specchio mi rinnovo

La perfezione simmetrica del taglio – ti piacerò ti sembrerò

Un’anima parlata che si è fatta carne com’essa di profumo buono

Mi tocca rammentarmi di una pioggia alla quale andavo incontro

Che colmava ogni buca della strada e faceva velo alle pupille

Mi ci impiastravo peggio di un bambino fuori da ogni controllo

Adesso i postumi visibili a pochi di chirurgia toracica eccoli qua

La spugna li abrasa ma non spariscono – rimangono come un sorriso demente

Malgrado essi ti piacerò – che certezza che mi si genera tra le mani

 

Un ripulire un repulisti uno svuotarsi le tasche e la vescica

Non potrò sperare di essere riplasmato e pronto per i calendari nuovi

Se siedo ora qui risparmio fatiche ma vedo solo

Una tundra dove si spegne ogni voglia di distinguere albero da siepe

Sprecato – anche ai ciottoli della campana di gesso sul lastricato

Devo riconoscere una preziosità di funzione che non posseggo più

Non mi consola saperti bella e distante in un logaritmo di spazio

Ma se scardinare il mio specchio per tuo uso potessi

In esso fare gloria – la più superflua – di nuove tinte di bocca

Allora non sarebbe vana l’acqua basterebbe una goccia per togliere la sete

 

Ha un panorama mortificato quella finestra dalla inutile zanzariera

Nido non trovo da essa e neanche scorcio di strada che attrae il passo

Forse riallaccerò stringhe detergerò le tomaie

Ha confini ben più vasti di un acciottolato natalizio

Senza luci di riserva e lampi di sorpresa accanto alle grondaie

Quel mondo che mi sembra ora una pellicina da mordere e sputare

Ritrovare quell’aria quasi buona da mangiare

E tutti i nascondigli i frutti succosi nella loro stagione

Peserà – tanto – quello che lascio le spezie per condire

La zavorra che pongo sul piatto della bilancia in equilibrio

È una volontà di sopravvivenza che latitava negli armadi

Non so se dovrò provare vergogna di me al primo risveglio

Io per prima l’ho profanata – neve fasulla in una sfera di vetro

Orologio senza lancette incapace di contare i giri del sole –

Ma abbiamo avuto maestria fantasia piombo elastico nelle ossa

Per sacramentarci e scoparci e negarci e fare figli cristiani

E riempirci casa di santi da non avere tempo e devozione per pregarli tutti

Siamo andati oltre le foto col vestito buono i souvenir della luna di miele

Ma chi sa ora se la Sacra Famiglia avrà nuovo capodanno ed epifania

Abbiamo coltelli tra i meglio temprati da scagliarci addosso

Piante da disamare un dolore di poco conto in punta alle dita

Un angelo con la spada ma privo di scudo resterà inerme a guardare

 

Quante pagine ho letto invano senza ricordarne neanche la puzza di tipografia

Di questo svolazzo di strade scacchiera di pedoni imbacuccati

Mi nasce dentro un nuovo rispetto per la terra di cui ho fatto esequie

All’angolo i balconi hanno luci meno che stelle fioche

Chiude il proscenio la chiesa con gli scranni orfani a testa bassa

Una voce rauca da non dirsi femminile fa macello della quiete

Non mi soccorre l’ossigeno celato dietro l’uscio mezzo appannato

Se qualcuno trova io invece smarrisco suoni e pensieri da tacere

Non importa quale uscio di bottega troverò a illuminare il marciapiede

O scenografie di luci festivi dalla matrice al corso laggiù

È un pensiero di me da non destinare alla differenziata

A farsi rosa da non poterne contare i petali

Gatto che ha perso il tepore del giaciglio in uno sbadiglio pigro

Guardami come qualcosa di meglio di una progenie di topi

Potrei elencare intere sequenze di puttane e di bastardi

E peccherei per difetto – cuore in un ospizio deserto

Latrano cani dalla campagna pisciano sul territorio da marcare

Sulle feste che scorrono via troppo lente anche per maledirle

Avessi un fiume per seguirne il corso e tornare a casa infreddolito

Qualcuno – mia madre d’ansia – riconoscerebbe la mia andatura

Anche da lontano anche con scarna presenza di luce ambientale

Riuscire a scavare fin dentro a ogni singola molecola

E scrivere e leggere e volerne ancora di pagine senza mai saziarsi

 

Male assurdo male insensato con la sera ancora da consumarsi

Costringersi ad abbracciare volgendo il capo altrove

Quel gelo che finge di fabbricarsi pareti posticce

Per farsi inutilmente – ancora una volta – chiamare casa

 

*

 

IL SEGRETO SENTIRE DELL’UNTORE

 

Maschere all’addiaccio

lo sbuffo di maquillage nulla aggiunge

alla profondità di zigomi artefatti

neanche la ciniglia biancheggiante

di una luna spettatrice al canto del cerone

somma palpito d’ulcera alla ciaccona

degli occhi finti quasi marosi di colpe

da espiare con la salgemma dentro

potrebbe anche scegliere – la luna –

una eclissi per i suoi incanti di torcifilo

cedere al sole il bagliore dei loggioni tutti

non varierebbe la cicatrice di balconata

di fronte nelle miserie dei “non so tacere”

 

(nell’emiciclo del suo orologio da taschino

Maldoror chinerebbe ancora la nuca

come ad attendere con una sutura di sorriso

il taglio – zac! – delle parole di scure)

 

Detergerà le pudenda in ruscelletti

di tracimazione da cloaca

l’androgina sole/luna

le maschere accorate la seguiranno

(un posto anche per me

anche se so di non meritarlo)

col becco a rostro a ripudiare saccenteria

di voli umani di nuova laboriosità

nelle dita acquartierate

in scongiuri di capera

androgine parole/pidocchi caveranno

dall’artesiano dei loro nutrimenti

la scorza tenace schiacciandola – crac! –

tra scintille d’unghia macchiate

d’acetone e benevolo indulto

 

(prendetene tutti

questo è il vostro corpo

ed il sacrificio lo si pretende mai lo si offre

i peccati sono come la carne di Dio

vera solo per chi la fede vuole sentirla

sotto la lama affilata degli incisivi)

 

Albeggiano barche da poco

con rovine di palmizi incassate tra gli scalmi

sulla superstite rena o in un cantuccio

d’ombra rapinata alla canicola

qualcuno gioca – bambini alla conta

o alla moscacieca donne sconvolte

nel diaframma da una promessa

di fiabe dove ogni cielo non contempla

nubi di fortunale – e le maschere  

sembrano non rimirare

le maschere reiterano la giaculatoria di saliva

lungo la doppia ancia di palato e pensiero

parole come arco discendente

di ciottolo scagliato al largo

fonemi in volo che il caprimulgo

non sceglierà come sua preda

riconoscendo nella loro assenza di macula

il segreto sentire dell’untore

 

*

 

dissodata da un gualcito catalogo vegetale

col poco sole a vermigliare i petali

tra la diaspora delle api

in un desiderio sanguigno di polline

 

rituale di genuflessione t’accompagna

all’atropa forma del calice di vulva

dove invocare un dio di metamorfosi

che tutti i volti plasma in uno

– forse soltanto il mio sopravvive –

 

ma nel colostro d’un ricordo emetico

compirò esorcismo d’ogni tinta

che ogni profilo all’angolo della volta

accondiscendente al mio palmo

non somigli a te

per grazia di clorofilla assetata

 

fuori da ogni mio recinto d’ugola

continuerai ad attecchire

in giardinetti da spiriti guardoni

in arido di bosso e infestante di posso

imitando in imene la Virgo Caelestis

nelle carne scarti di mattatoio

 

tacendone la genesi

transiterò ipovedente e sfuggevole                  

recando cesoie dietro ogni respiro

 

*

 

 

Rimprovero al filo d’angora la sfrangiatura

del nodo a bocca di lupo che non seppe tenermi

sacrificato nel recinto mio di sonno come pietra

alla cruna di essere stata agevole

valico per le processionarie con gli orpelli loro

gli alamari d’osso di balena accalappiata nel sangue

i bottoni in zecchino come finte morali

di fiabe abbandonate ai crocicchi

mostrine per ascendere a pozzi verticali

oltre flebili mormorii di dissenso

e gridare comando all’aria

e sui petti loro salve d’artiglieria di medaglie

metalli che non sono vanghe sulla gleba

ma siderurgici epitaffi per chi paga le colpe e i sospetti

e gli ultimi son sempre coloro che con strazio

sputato dalla speranza cedono le vere delle spose

ogni frazione di conio cavano dall’umore sofferente del midollo

 

Nodo infinitesimo sommato al nodo

lungo i giorni le notti di quaresima stanca

non è stata la catena del filo cardatura di spazzola

incantata sul bisso a tessere la sajjada

per i miei salmi sapienzali

soltanto lacrima di Lachesi sotto rifrazione di prisma

opera del suo telaio senza voce o alchimia di tarocchi

m’individuava –oh si– nel piazzale dell’Alfa Trafili

in un trefolo dove la bassa bresciana nel rame crudo

scoloriva una ipotesi di nebbia

tardiva ai margini del morto foraggio

m’indicava poi –eccolo– un profilo di fratello

cottimista nell’oltremonte nell’oltrepianura

al cancello della Cucirini Cantoni Coats

i mille rocchetti plasma suo steso tra la Lucchesia

e quello che rimane del mare tinteggiato

e continuerebbe se non le zittissi la nenia

con un morso a cicatrice al carnoso del labbro

 

Nessuna vertigine panica di Teseo

dentro i miei anfratti anneriti di rimpianto

la trama ha calibro di rete a strascico

che corpi morti trattiene e l’acqua vitale

lascia transitare su una siccità di palato

un singolo filo abbandona l’arazzo

mi fa da monile ai polsi e cappio alla trachea

quante delle sue sfumature di tinta mai conoscerò

la cote in bagno d’olio diligente nell’opera sua

sentiero senza danza ripete sull’arcuato tagliente ________

____________________________________vittima il filo

e ogni mio trascorso su di esso adagiato

 

*

 

 

Domino di miei frammenti sul piastrellato

ammassi cellulari con eclissi di protomartiri

su prati che m’illudevo di verdeggiare

particole d’oro e d’argento

(amore nella vibrissa al vento

strenna cascatami distratta dalla fodera)

una palpebra fa

oppure domani per mio personale

incensamento scevro da precipitazioni

mi scopro incapace di ricomporre mosaici

sul basso continuo della colonna olfattiva

da armageddon sui piani visivi dispari

 

È pasqua sempre se mi edifico

con muri al sole al confine di boschi sovrani

spodestando cave nei cartigli

arenaria sopra arenaria sotto chiavi di volta da ascolto

una prece per ogni falange a spodestare il rosario

coagulo a bontà d’arteria

epidermide al creato e al tempo

e alla chiave d’accordatura per i misteri luminosi

nella cuticola del grano che germina

sotto i miei resti di spirito

 

Come ogni fiume sordo vorrei non morire

e forse nemmeno rivelare estuari

battezzarmi cotidie alla durezza salina dell’acqua

e alla quiete degli aminoacidi

e una sola volta alluvionare

la pece dei costati

le tinte dei vessilli

le prostituzioni delle sinapsi

 

Poi ricominciare

ogni tessera come goccia pura

mondo bastante alla sua lucentezza sferica

 

*

 

Le stimmate vostre

polvere macchiadita di mimosa

dentro un viluppo di ginepro

le riconosco

ne faccio costante vibrazione d’ugola

quando l’ombra sembra voler cullare

e nascondere in organza la somma della sorgente

e dei lasciti suoi nel ventre che zitto

ripete in miniatura vaporosa

l’antico miracolo di Dio

 

Attendo a mio modo di ritrovarle

stampate per nome su ogni foglio

come da calendario delle quotidiane spettanze

ma dal foglio sembra abraso il nome

quasi che ogni martire per recrudescenza di colpa

avesse abiurato il battesimo

per abbracciare in un cuore secco di croco

l’immagine senza calore di una maschera d’astro

 

Ristagna invece il denso solitario del sangue

in uno sberleffo di allattamento per le zolle tutte

cantilena di sonno e arpeggio di ninnoli negati

a deboli voci rimaste crepuscolo d’infiorescenza

e a quelle lasciate senza luna di maree

in un sogno contrito di automobiline a pedali 

 

Smettono di essere soltanto vostre le stimmate

ribadite con grezzo di battente da spuria mano d’uomo

s’avvolgono in rifrazione

giunta alle vostre palpebre

per negazione di genesi e di curata veglia

e pianto di giaciglio perpetuo non conoscono

nel feroce palpito delle cellule nostre

perché uomini siamo anche noi

propaggini d’essenza del vostro dono di silenzio

 

Angelo Curcio

DOPOGUERRA DELL'ESSERE

 

Fusero il cielobianco e il cieloceano

di Cracovia, in cento chiese cento canti

dove dipinta vagava la doppia faccia

di piazza del mercato, precipitando

in pasto alla luna, nella messa ossuta

fino all’argento, nell’ora lieve e cinerea

della madonna nera in processione

di caccia, mentre l’organo del pianista

esistenziale e bicentenario, crollava

con Varsavia e il romanticismo, assurdo

e assoluto in un futuro stremato dell’aria

nel dopoguerra dell’essere, assassinavo

la fantasia e i suoi fantasmi, fallico

d’immaginazione, sbronzo d’entusiasmo,

scivolando in chiese minerali, in scale

concentriche di folle in file, salgemma

amica di mia sorella, amore primaverile

e pullulante di presagi, avevi candelabri

di capelli, statue di sorgenti, stanze di sale

e rotaie dove i minatori piangevano

i sogni, e la verità sotterranea

come una tomba abitata, e l’età.

 

(Cracovia, Miniere di sale)

 

*

 

ANIME BAROCCANO ALTE

 

Vedemmo la notte e le candele camminare

dal mausoleo agonizzante al monastero

presagio di giorni volatili e del sinistro soffio

di tutti i compagni rupestri sono l’inchiostro,

lo sposo superstite, il mancato oppiomane.

Quando accenderanno tutti i presepi

e viventi ancora, tremanti ancora,

saliremo le ultime scale di polvere

cercando la luna circolare nella torre,

scorgeremo quella nascita, la crepa di luce

tra i tufi, dove sorge il fiore randagio

che barocca l’anima e sbriciola la fame

quel pane della storia che fu divorato

dai denti futuri, dalle case di plastica.

Negli occhi della madre di mia madre

il nucleo danzava su piani trasversi

le catacombe giocavano fino al giardino

i nidi cantavano con quartetti d’ali ariose.

Ora una crepa barcolla ovunque, prolifica

squarciando la notte nelle stanze aerofone,

gli eredi moribondi pagano per le pietre

che cadono, un disgraziato coi panni stesi

ha posto un cancello nel vicolo pubblico

nell’unica frana di accesso al tempio

per abitare e abbaiare ai turisti,

chi dorme i secoli in quest’erba, ogni sera

rivoltandosi, sale al condominio terrestre

e bussa come solo un’anima bussa:

 

*

 

I MUSICANTI

 

Siamo stati luoghi miliarici

arcipelaghi di sogni incompiuti

lontananze affettuose dell’aria,

ora vibriamo nell’ebano delle strade

cucinando vita e polvere negli alloggi

compagni dei matti, dei diavoli salterini

e dei nomi che nessuno comprenderà più.

Qui non c’è tempo che possa murarci

nessuna regione estranea ci appare

o bufera di un carro o pioggia festiva

abbiamo guanti forati e dita sonore

ombrelli ascellari per giocare coi venti

sulla fronte la lira che pedala le note

un occhio terreno per scandire letami

e l’altro affollato che svirgola in amore,

adagio nel marciapiede delle statue

e sotto i balconi con le gambe affacciate,

i musicanti sanno morire a memoria.

Ogni città è una casa che attende

per noi che veniamo a vestire il silenzio

per noi che sappiamo chiamarlo per nome

trascinando le chiese fino al campo di pietra

trascinando, le chiese, fino al campo di pietra:

 

Gianpaolo G. Mastropasqua

ALLA CORTESE ATTENZIONE DEL…

 

Io non ho la tua eloquenza, la tua capacità verbale,

scrivo per darmi un senso…oh no…mio dio che dico!

Scrivo per darmi un tono, intollerabile…

Eppure non riesco a dare un senso al veleno per i topi…

Ho passato l’intera giornata ad osservare il cavallo delle mutande,

potrei dipingere con mezzo colore bianco e sfumature di nero

l’impertinenza dei miei peli pubici…

mi sto dando un tono, intollerabile…

ma ancora non riesco ad approfondire questa malsana usanza di uccidere i topi…

adesso potrei parlare dell’amore libero, fantastiche orge di gruppo,

orgia di gruppo mi pare un po’ squadrista ma lo accettiamo,

se non fosse che l’amore non esiste, è una menzogna,

una menzogna così ben architettata che non posso fare a meno di crederci…

ma se mi vuoi bene ti prego spiegami questa stronzata del veleno per i topi…

ora, sarà stato due giorni fa, ho visto un uomo morire con una piroetta ad y,

voglio dire un uomo che si tuffa da un cornicione, braccia ad angolo sopra la testa, corpo verticale

e puf! Giù per quattordici piani di morbidezza…ecco la y,

ora immagina la x…

e mentre escogito un sistema alternativo alla odiosa mattanza dei topi

Dio benedice la mia propensione alla pornografia,

l’erotismo non mi eroicizza, mi affloscia mi ammoscia mi ammorba

proprio qui ed ora che mi do un tono, intollerabile…

e lo dico a te che hai comprato una strada nel centro di Genova

per ballare come un idiota nei prefestivi

ed hai costruito un museo per imparare l’arte e metterla in disparte…

io sto dalla parte dei topi, io sto dalla parte dei topi e delle pantegane

e non voglio ottenere null’altro che un antidoto alla mattanza dei secoli…

baci, Massimo Pastore.

 

*

 

GRUM SGRUNT YO MAMAIO

 

Conclamatosi poeta morì con una sprangata di vocali sulla nuca…

Il poeta è fascinoso,ne sono certo,

la prima poesia schizzata come sperma adolescenziale sulle tende di un hotel è fascinosa,

ne sono certo…ne sono certo…ne sono certo…

ma sono per vocazione incapace di esprimere una sola parola

senza aver prima compiuto un gesto o derubato un gesto…

ecco allora che rivendico la non poesia,la pre poesia,la post poesia

come una primitiva azione fisica o gutturale o o o…

grum sgrunt yo mamaio oppure

……………………………………………………………

Infiniti spazi vuoti,volutamente lasciati vuoti,e scriveteci incideteci sputateci

ciò che vi pare,come vi pare,perché vi pare…

la parola soppiantata da un calcio nel muro,un calcio nel muro soppiantato da una nuvola di passaggio,

una nuvola di passaggio soppiantata da un filo d’aria su una tela grigia…

l’io poetico sostituito dal noi poeti…noi analfabeti…noi istruttori…noi istruiti…noi poco più che imbecilli,

imbecilli e per questo poetici…

conclamatosi poeta morì annegato in un mare cartamerda di elogi

emettendo un ich ich ich …

la migliore poesia che avesse mai scritto.

 

*

 

UNO STUPIDO POETA SENZA MANI

 

Ho saputo che ti hanno messo gli occhi,

due gazze furiose a rapinare la luce dai rami…

ed ora sai che non sono quel volatile inciso sotto al neon blu

dei bagni pubblici, 27 centimetri di solitudine,

ma soltanto uno stupido poeta senza mani

sdraiato a bivaccare sul molo, aspettando la corda

che mette a letto le navi.

 

*

 

SEI LIBERA

 

L’eutanasia di massa è il sogno di una pecora…

ti telefono, dopo anni. Blocco la cornetta dal convenevole

-come stai?-

Ti dico di come focalizziamo i nostri poteri nell’attesa e nella gestione dell’odio.

Ti parlo dell’imminente morte della mia casa.

Dei mesi che separano mio padre dal nostro abbandono.

Della enorme utilità della morte.

Degli oggetti che non ho mai osservato e che credo osserverò per lungo tempo.

Ti parlo di un amore poco corrisposto perché i nostri poteri sono scemati nell’odio.

Tu mi saluti con un ciao ed un – coraggio. Io ti dico,

 

sei libera…

 

Sebastian Rif

Ho questa chimera nel midollo spinale

che il mare della tranquillità mi preclude

e la realtà così com'è non la sopporto più

Molto prima che nascessi

impallidì il viso a crosta il viso a foruncolo

della sciamana

Strappati il sesso brucialo nell'acido

non concepire bambini soprattutto adesso

soprattutto a marzo raccomandava a mia madre

soprattutto questo non lo potrai sopportare

finirà che vi odierete finirà che striscerete al suolo

penosamente e sulle disgrazie che ne verranno

potrei comporre un Almagesto

Lasciati splendere da sola come un corpo celeste

la gioventù è colpo d'ala palpebra che s'apre ed è già chiusa

Non ascoltò la giovane dai capelli pieni di fertilità e speranza

si diede al piacere del connubio e non volle protezione

Dai servi fece anzi fustigare e condurre al rogo

la fattucchiera di sventure

ma prima volle reciderle la lingua e conservarla in un barattolo

di paraffina

Quando ammazzai mia madre lo feci lentamente amandola in taciturno alfabeto di gioia e di paura

Ho ancora un cervello c'è disco tolemaico dentro al fuoco

intorno alla malìa d'una angoscia ch'è macchia bruna

Dio era pronto con l'indice sotto la mia calotta cranica

sa condannare lui che nessuno condanna anche se maledice

Potere vorrei avere di raggiungerlo nella sua stazione spaziale

per sbattergli sul muso le responsabilità della sua malaccorta creazione

E vederlo offuscarsi fra le sue stupide stelle

 

*

So dell'astratta morte

come un fanciullo sa se ride il sole

non conosco gli anni della vita svelta o stiracchiata

come aliena m'è per misericordia

l'eternità dell'assenza

Un passero nulla si chiede beccando foglie

l'insetto è e va perché è e va dove potrà

né teme l'insetto o il passero la morte

non si domanda come faccia la natura a generare

a mutilare a far finire tutto nel carbone dopo il lampo

Nessuno mi paga per essere effimera stella

né compro saponette profumate per coprire

il lezzo del mio dissenso d'essere al mondo

immondo fra gli immondi nell'immondo e pur magnifico mondo

Ho vista fioca e acuta pretesa di veder lontano

guardo il bello e non lo riconosco come pressato

nel fornello di una pipa essiccata nel fango

C'è stata una via prenatale e un'elica per salpare

ed emozionava guardar giù dalla coffa della sicurezza presuntuosa

poi arriva presto o tardi il poi che guasta il sogno

che s'accoppia al fragore del piacere in festa

e sei tu il segnale della mezzanotte che separa

i passi mocciosi dalla mèta e sfronda malamente il giardino

Allora s'abbuia il faro che solo tu creavi per te e dintorni

e ogni mattino ritorni Peter Pan senza stivali

fra le dita di una sorte spelata

senza nome senza prima né dove né mai

 

*

L'ASSOLUZIONE

 

Davanti alla Fermata

vorresti dire

"lasciatemi l'istante che andrà

e tutte le solitudini del mondo"

Ma hai perso col bagaglio

le parole

che hai creduto lucciole

e non trovi occhi

per afferrare

i contorni del mistero

dove impazzisce la tua stabilità

senza rosario

esaurito il giudizio

con Dio spedito al confino

dal tuo animo giudàceo e codardo

che nemmeno combatte

l'abbruscato ombelico dell'inferno

Reciti quindi un funerale

d'immobilità senza patèma

e t'illetàrghi

speziato di generosa inettitudine

proprio all'imbocco del tunnel

che porta via i demoni bizzarri

annienta le peritissime finzioni

il cuore vagotonico concilia

ai disastri sostanziali delle molteplici vite

in un'unica vita

sgangherate irregolari

in fin dei conti assolte

per volontà di paradosso

quando incredibilmente

iperletterarie

 

*

L'ironia nello specchio in quei giorni

e già sfilavano i carri armati dell'invasore

impazienti di spararci nel futuro sopra il ciliegio

Avevamo la giovinezza sulle ginocchia

e le istruzioni per morire ammazzati

non prima di aver ammazzato quanti più stranieri

puntati dalle finestre con le tendine comprate

ieri a un prezzo veramente accessibile

Vogliono vaccinarci a forza ma noi li contageremo

c'è morte in noi in abbondanza

fare il cecchino serve ad attirarli qui

Intanto il cestino è pieno di poesie appallottolate

oggi nessuno di noi è in vena

nessuno è abbastanza folle per scrivere roba decente

Ieri ho starnutito in faccia a un passante

dopo avergli strappato la mascherina

Per un attimo si è irrigidito in un urlo

e scappato in un vicolo inseguito da laceranti paure

Ne abbiamo terrorizzati molti almeno una dozzina a testa

e continueremo a farlo se sopravvivremo agli eterni riposi

Ma siamo vittime o carnefici per l'occasione

Questa città è già una necropoli come tante altre

Un gruppo di soldati infila il nostro portone

Salgono dobbiamo tenerci pronti

a fare sesso spinto con la morte sperando ci scampi la vita

Io appartengo al genere femminile

l'avevo scordato con le ghiandole

ho già preparato il sugo ho scompigliato i letti

per cercare un abbraccio balzato sul cuscino

e dono baci scalfiti dalle unghie

C'è un lupo che gratta nel cuore

gli ho appena sganciato il collare

e lui va libero uscendo dalla mia testa bruciacchiata

Puntiamo le armi contro la porta

Fuori la luce si fa tuono e qui adesso il fuoco

piove

 

*

Lento solitario vascello la tristezza

una barcaccia l'angoscia

affidata ad acque turbolente

Ruggine nei ricordi

accoppiati a nomi sul carnet di ballo

Le cose non rispondono a domande vaghe

Le cose non corrispondono alle cose

E' una traversata difficile stanca

con una saponetta un tozzo di speranza

l'effimero intorno e sullo sfondo

ore nell'almanacco delle idee

cedute a un ambulante per poche parole

che non si sa dove andranno a posarsi

Sulla testiera del letto non canteranno

chissà dove saranno capitate

lo ignorerò fino a domani no per sempre

Quanto mi resta in questa testa bislacca

nel cuore ho ereditato i dispiaceri di mia madre

Perché mi chiedo siamo tutti a fallire

siamo tutti stranieri nel viaggio

ridiamo di tutti

tutti piangerebbero per se stessi

se la scuola delle lacrime

non fosse una mendicanza

che tende la scodella ammaccata

Vorrei fissando una moneta

capire quando si spegne una stella

se amando una donna stride la porta

e si chiude sul buio

con una spina confitta nell'ala

Sono un dono modesto

per chiunque mi dà buccia di frutto

i miei occhi hanno la pressione dell'acqua

fra i denti rimarrà desiderio di mordere

sciami di nuvole

equoreo mistero

fardello

che si raccoglie in un carillon

Mi concederei all'inseguimento di una piuma

se l'aria fosse visibile al sole come mio elemento

il mare è infido e così la terra

e gli uomini che sibilano sfiorando le bare ovali

vorrebbero non aver saputo di latte materno

di telegramma all'infelicità di fiamma come belva di neve

 

*

Finché ci sarà il destino

non cesserà lo stupore

Sarà il dolore a meravigliarci

avrà uno sguardo malevolo

oppure ci incanteranno due lumache

sulla stessa foglia colpite dalla prima goccia

di pioggia mentre il cuore spara

la sua primavera irosa di gioia inspiegabile

Un attimo fa ero al chiuso d'una stanza verde

collare di cane e guinzaglio

conchiglie e spiccioli sul comodino e un fermaglio

Baciavo i tuoi piedi nudi piangendo di sete

lei con la scopa spazzava via il sole anemico del mattino

Oh siamo randagi siamo randagi nel mondo sobillato

dal suo moto perpetuo abbandonato alla mostruosa

solitudine del cosmo dove la vita è l'evento accidentale

Dobbiamo riconoscere che non c'è peggior terrore di questo

saperci soli e infinitesimali signori pezzenti di illusioni patinate

meglio distogliere il pensiero sennò fa male

uccide persino è canna di fucile in bocca

Invece io voglio conoscere il sapore della lingua

di Boris Pasternak a Mosca fin de siècle

sfogliare Il Gemello delle Nuvole

sonando il piano della mamma

per quelli di Centrifuga mica per gli idioti di oggi *

Giro intorno al tuo asse per mio conto

meravigliato del meraviglioso amore che ci rende ottusi

felici in una folata d'aria che si spande per la galassia sconosciuta

Viviamo alla svelta

prendendo dal frigo montagne fiumi e pianure

Chi resta non si ricorderà che mai è stato

 

NOTA

* Boris Pasternak prima di dedicarsi alla Poesia sognava di diventare pianista come sua madre; "Il gemello delle nuvole" fu la prima raccolta pubblicata; Centrifuga fu un gruppo futurista.

 

*

Ero un uomo difforme

Mi hanno soffiato via tempeste d'api

per via di esalazioni di pensiero

Non servì affatto

attaccarmi da disperato alla staccionata

Non il legno

la mia presa era fradicia

Crebbi polveroso nero di pece tante verruche

Le dicerie aumentavano

facevano sanguinare la mia storia

dopo una caduta rovinosa

non mortale purtroppo

E gli occhi

consumati nell'autoscontro con la realtà

rattoppata

priva di mansuetudine impastata di miseria

E' tutto irrazionale ruvido a sghimbescio

Lo steccato era una trappola

e adesso il Male m'è quasi dolce nell'alito

e forse adesso potrei potrei potrei

estrarre dio dalla sua altezza astronomica

nel simbolo di tanta nominazione

ma

come

faccio

a

dargli laude

ad essergli

rido

grato

senza mentire servo spaventato

che dissimula rancore e non smette

in fondo in fondo che gli frega

di salvarsi

nella radiazione

del giudizio universale buono per i soliti

raccomandati

mentre casco in ginocchio

sull'unico ginocchio l'altro è stato amputato

e c'è chi crede

che sia per devozione

la minchia se lo è

che imita un fiore

offerto da settembre

 

*

Se sapessimo quel che guardiamo

se capissimo in tempo per strapparci via di qui

sterili o ammalati la foschia ci falsa le pupille

Si ha paura che a tendere un braccio

da un angolo strano sortisca insistente lamento

una ferita quando la volpe cacciata

si reincarna nella cavalcatura di chi la bracca

La luce non piove si schianta

alimenta mille finestre che affacciano su cortili morti

altri vorremmo panorami in festa col sabato

il piacere o l'ostinazione di immaginare

che qualcosa la si possa intagliare dalla noia

un barattolo solo un barattolo

e non si lascia nascondere

Questo corto circuito tra sapere e negare

ignorare il colore sulla tavolozza

e fingere il rosso carminio sulla salvietta

dopo un pranzo avvolto nel masticare frastornati

con la lima nel petto e una furia di memorie

in fuga dalla volontà di raccontarle a telefono

di potarle appena in tempo

di condurle dal soggiorno al letto in scompiglio

nello sbadiglio lento del sole pressato

dalla velocità con cui carnai urbani dissipano gli scopi

secernendo vuoti senza resa canti di cicala bacini di desideri

che si stropicciano generando sussulti e strida

I corpi si flettono i sorrisi inclinano labbra

corpi gocciolano sono steariche dalle fiammelle colleriche

Noi invochiamo più di quel che già danna

inaccessibili alla grazia se pur grazia per noi ci fosse

annaspiamo ci cospargiamo di attese temendo le cadute

malaccorti nel corteggiare i gesti che decidono

che parlano che vedono intendono per noi

ci uccidono senza distruggerci

ci riproducono sotto lente d'ingrandimento

ci riservano cartamodelli posti economici

tappezzerie per casette a schiera

con dettagli pitturati ad inchiostro

e nella cuccia del cane gioca con bolle di sapone

la disperazione

 

*

NEL SENSITIVO SONNO DI SEMPRE

(Identità)

 

Questa gerbida frustata del maltempo

A luglio maligno

Unge l'asfalto frettoloso

Sbàlla le mète dei passanti perbene

In cerca di cappuccio d'ombrello di scampo

Negli androni strizzano

Le focaie imprecazioni

Disgraziato intoppo di nubi

Betoniere nel cielo

Infierisce

Sbalordisce il Purgatorio variabile

Del giovedì affogato

Nel querulo traffico isterico

Spande un'uggia a contagio

Nell'aria che s'appiccica addosso

Mandorla presto stantìa

Prelude a un montante

Stranire

Malsopportate pareti di casa

Slavano dal rosso costato

Rimembranze riottose ai bilanci

Sommossa

Di fardelli in sequestro

Che il ripostiglio più non trattiene

Non vuol più saperne

E per acida burla

Sguinzaglia

Sparpaglia il destino

Dà zampata di tigre

Se tu intanto non dormi

Sulle guance vibranti

Un poco di certo lo avverti

Il clandestino garofano di un transito

Anidro pallido

Saranno parvenze furtive velari

A insufflarsi fra i ricordi contusi

Monachicchi a fiamma di ghiaccio

A impigliarti nel vischio di Niente

A guidare a spintoni sulle orma di Lazzaro

Convulse passioni che sanno di guizzo scheggiante

Di rutto Di peto

Alle arterie

Tra le note pezzenti d'una ria filastrocca

Sinfonia di pavori salmastri

Potrai allora accostarti allo specchio

E sospesa tra labbra allunate

Intuire la livida Parca

Nutrice di futile filo

L'alfabeto agrodolce

Del Disvelamento

Se non si dissolve a capriccio

In coda a un laio solenne

Derisorio marino sommesso

Poi la vita ti vince ti vince

Nel sensitivo sonno di sempre

Poi la vita ti mente ti mente

Rapisce confonde distrae

Rivestito d'oblio provvisorio

E sbarbato dal sospetto del Vero

Starnutisce per te identico e nuovo

Un ustorio mattino

E catafratto

Il mistero insonoro

Interpunge le vie dibattute

Tu bersaglio acquattato

Menestrello maltollerato

Guitto indisciplinato

Ecco

L'imago

T'assilla

T'assedia

Adelomòrfa l'imago

Ma chi sei

Non lo sai

Non lo sai

Non lo sai

Non lo sai

 

*

Nel sole ultimo

oro sulla cattedrale

non oso alzare il fuoco degli occhi

Scelgo l'ombra che ti rubo

l'ombra che non si spaventa

a sterminata luce per sterminata onda

Tu sei la vita che non ho trovato

e che mi costruisce il mondo

il ponte sei l'inizio e il termine

del viaggio che di fronte al tuo respiro

s'interruppe mentre l'illusione prendeva il largo

e la speranza gettava fondamenta

per peso di Titano

Tutto era vano che non fosse lieve e centrale

tutto spariva che non fosse tua cosa

cosa tua e basta

come me slegato da questo volto e il corpo ammalato

rinato senza spiegazione con unica nozione

te l'amore il lampo così intenso e giusto

oltre la rabbia del reale a scroscio

Dio tanto tempo fa franò e si fece laccio per polsi

né io sicuro di pregare o d'insultar la sorte

tentavo più riconciliazione e sorso d'aria mossa

Te lo dico adesso che mi sfami

nel palmo addolcito delle mani

Tu sei risposta di quel sogno

che non ha domande

e si conserva quando in danza

la notte e il giorno

sfilano sul giardino

dove dimorano la pietà e la gioia

al divampare dell'anima

per dire all'anima arancione

portami al sorriso

nel canto senza velo della coscienza nuova

 

*

Troppo ingombrante per la gabbia toracica

bisogna tirarselo appresso

con grande impiego di fazzoletti

per il copioso sudore

e farsi bastare la pausa the

La corda poi

se è di cattiva qualità si spezza

cadi col culo per terra

prendi un supplemento di vitamine

la voglia di mollarlo

è un furetto che la sa lunga

sull'autunno definitivo al crepuscolo

presso il vento vuoto che si propaga

e scaglia aghi di fottutissimo rimpianto

Ma tu non lasciarti fottere dai ricordi

è stato un bellissimo momento

quando ti sentisti povero fesso un girasole

ed eri un pesce di fiume che giocava

il suo numero di guizzi nella rete

Il fatto è che non si accorgono di te di me

nessuno

Il loro inchiostro si raggruma in pochi scampoli

di narcisismo

per il resto hanno ali intirizzite

e ugole biancastre cartamodelli di parole invecchiate

macchinette che caricano a molla mille paure

bislacche che viaggiano a forma di croce

Domani aprirò la scatola dei biscotti

la confezione di caramelle alla frutta

inzupperò il pene nel succo di ginepro

e lo venderò dietro la lente d'ingrandimento

Chi lo comprerà potrà portarselo in un'aiuola sfiorita

e avvolgerlo nella carta da parati favorita

canticchiando Little Red Corvette di Prince

oppure Vieni c'è una casa nel bosco

Mi asciugo le mani sui calzoni

guardo come ti affatichi mentre tiri spingi sbuffi

chiedendo un minimo aiuto ai passanti pallidi

tutti a proteggersi i visi come soffioni annullabili

dal primo soffio capriccioso della sorte che ti fa barba e capelli

se non annodi un fazzoletto al collo

e se non hai in tasca un biglietto per il prossimo tram

pieno zeppo di Tartari di Godot

 

*

L'ardore scosceso

celestiale culmine

luminescente impresa

Dimmi

com'era soltanto l'anno scorso

ritagliarsi nelle mani

la trasparenza di una cosa così sacra

dammi di più

oltre paragrafi morbidi

segnali mobili

iracondia del mordere

graffiando la vista

nei soggiorni lunghi del gusto

ridi levo il capo

i nostri piedi strofinano discorsi e lenzuola

quanto bene si raggruppa in un frammento

di ciglia un odoroso senso di festa

l'assolvimento del tormento che si fa desiderio

del desiderio che tormenta burrascoso

la scalata del corpo alta liturgia che irrompe

l'amore frequenta ancora la terra

dà sapienza fa strada luce fra gli arcani

scevera verità è grazia

non soggiace a nessuna intimazione della morale

siamo sporchi di vita troppa vita viviamo

e del resto se la morte è fedele alla morte

la vita lo è rispetto alla vita *

furia d'anime colpite dalla selce dall'ebano dai fuochi

il calore stranisce sorge un brivido poi un altro

al crocevia si scorge nel cielo

uno scontro accidentale fra rondine e gabbiano

 

NOTA

*Riferimento al celebre verso di Mario Luzi

 

*

Proverò a scrivere sulla mia pelle malata

la distanza temporale tra il tuo corpo e il mio desiderio

C'è un risvolto amaro che è garanzia di dolore

un'indagine kafkiana che affibbia già colpevolezza

ai sensi travolti da una impazienza tropicale

Voglio infierire fino a starci male

e rifiuterò ogni cura ormonale

preferisco invecchiare in questa morte quotidiana

esibire lo stigma della dannazione come una piaga ormai archiviata

Da troppo tempo mi sono inoltrato nella foresta irrazionale

mi spiacerebbe sottrarmi a questa forza di gravità per pentimento

o per l'ignavia del piede schiacciato dall'orco di pietra

Ignoro l'allarme planetario lo scroscio di paure di ritorno

La mia è indifferenza strategica o prepotenza verosimile

comunque simulazione poetica con bugie silenziose

e acrobatiche intermittenze infiammatorie del porco linguaggio

Non leggerai a causa di un'ustione agli occhi del cuore

confido ostinato in una rigenerazione d'un lasco sentimento

sarò un illuso per troppi innesti emocutanei Che bestia

Ma scrivere è la manutenzione della speranza

una nuda proiezione gesticolante della mia sordità

Mi alzo muovo le braccia esco mi siedo rientro

introietto in un bozzolo i detriti mnemonici di questo mondo

che mi disperde che si fa santuario sostitutivo dell'incerto umore

Insomma sono un commediante divertentissimo

potrei addirittura ambire a un Mercury Prize tutto italiota

nel senso di italiano idiota sboccato sognatore

fugacemente individuato in seguito per un servizio di moda

con tanto di mascherina meglio d'una popstar un po' scaduta

Dovrei baciarti in modo meno subdolo

ma la sincerità mi ha spezzato la schiena

non si regge più sulle gambe oh boy oh man

 

Armando Saveriano