Carlo Di Legge - Multiverso. Di quel colore che soccorre, a volte.

Multiverso

Un architetto nascosto mostra evidenze:

mattina presto, ripuliscono le strade.

Quasi nessuno.

 

Pensi te stesso

alla stazione ferroviaria,

viaggiatori che aspettano, treni sporchi;

o

a cavallo del tempo,

una specie di linea immateriale o fluire

d’un fiume.

Tutto molto strano, ma ti sembra consueto. Ti rassicura.

La verità che appare ogni giorno

sembra priva di pretese,

ma s’impone.

 

In viaggio: una porta gira sui cardini e sbatte, senza

chiudersi.

Tanfo di treno s’attacca ai vestiti, addosso, nell’afa.

Immagini entrano ed escono.

Le porte per l’altrove sono ovunque.

Il mondo è una basilica evidente, misteriosa.

Lune e soli,

come lampade appese,

e grappoli d’uccelli sotto le navate.

 

Dubiti delle intenzioni degli uomini:

invece

credi a ciò che ascolti, e vedi.

Ma guarda bene l’apparire, se non sia

l’apparire che ti guarda; e se

sia

soltanto quel che molti vedono.

 

Alcuni luoghi custodiscono,

oltre quello che vedi,

al contempo,

infinita multiversa animazione.

E poi,

cosa è questo che appare, e come

non dubitare delle cose che sfilano

nell’ordine del tempo?

Anche se l’apparire fosse tutto,

cose discontinue si presentano,

in luce d’esistenza, si oscurano,

compaiono e dispaiono come su scena di teatro,

roteano si disperdono come vortice di foglie.

 

Non ti domandi ragione dell’assurdo.

 

Il silenzio è pregno di parola,

ogni parola comporta silenzio

un treno vuoto si rivela affollato

al tempo stesso,

e un uccello della notte si trasforma

in immagine.

 

Nel momento,

il fuoco del tempo ritorna,

si ferma,

senza direzione

scatta;

dove qualcosa

è stato, qualcosa

permane, o torna; dove sarà, è già

presente, o

è stato

nel futuro,

e c’è dell’altro – e non tutto

l’apparire è condiviso: non a tutti

si mostrano le cose che solo alcuni vedono.

Inquietante presenza

di punti che ristagnano, confusi

coincidendo,

e mutano:

un’immagine è una carta nel vento

ma la carta

d’improvviso

è un gatto

che s’arrampica

su un muro di vento.

Ma puoi credere inoltre

che di continuo l’invisibile divenga

fuoco d’ombra e di colore, e trasmigri l’inaudito

in suono e voce.

 

L’edificio del mondo è multiverso.

Da rosoni invisibili e finestre

e scardinate porte

è come ti cercasse ciò che non puoi credere né speri:

d’improvviso ti parla, anche per mezzo d’altri.

 

Entrano ed escono

figure,

nelle strade vuote è folla d’altri,

di cui

non sai,

sono pieni nei vuoti apparenti,

o vuoti nei pieni,

si ripetono intrecci di sentieri

che traversano i palazzi,

pieni in altri pieni,

dimore si ritagliano nel cielo

o in case inesistenti.

 

Delle parole

 diffida, e dei concetti:

l’uomo che spieghi l’apparire non è nato.

Ma, per quanto abbia

cercato,

hai solo antiche domande,

e strane risposte.

 

 

Verso Elea, settembre 2009

Stanza di passaggi

 

Nella nostra stanza siamo in tre.

Uno dorme da giorni sonni di morfina.

Le cellule maligne

hanno preso le ossa e le carni.

L’altro sostiene le dosi del farmaco

arancione.

È migliorato molto, in cento giorni.

Il suo lavoro stenta – la moglie

è sola con le cose.

Quando viene, discutono. A volte,

sommessamente, piangono.

Là il dolore, e accanto

la speranza si alterna allo sconforto.

 

Qualcuno passa di qui per andare,

altri resteranno.

Essere qui, nel punto dei passaggi,

è vedere te stesso, e gli uomini,

come nuvole sospinte e scompigliate

dal vento.

 

Altomare

 

Nella sala-fumo i camionisti parlano lingue dell’est

e bevono birra.

Gli studenti inseguono il giovane prete.

Alto mare.

 

Ancora terre e lingue sorgono.

Qui verticali olimpi tentano il sempre lontano cielo

alla tavola calda il cuoco scherza sul Che Guevara

e le donne servono cibi sconosciuti.

 

Dagli spazi le immagini vengono

con ali d’aria senza ferire la montagna.

 

Aspetti silenzioso come gli ulivi e i capri

in te l’attesa di alfabeti del senso.

Guarda

sfogliando le mappe come s’alzano i nomi nobili uccelli

guarda come vengono

impregnati d’acqua originaria.

 

Il mare stringe le mani della pietra

così la parola si articola all’immagine

che il sentimento mostra:

sotto la pioggia grondano parole.

 

Fissa le immagini che vivono

e questa religione di passioni

così evidente.

Non è passione che non sia nome divino o mito:

un ragazzo che ti sfiora per strada può essere Pan

e qualche ninfa si nasconde in reception.

Per quanto piccole passioni

sono mare:

mare grande come questo della parola.

 

Quale solitudine oggi sopporta. Quale assenza.

Il dio vertiginoso non ti affascina più.

Sul monastero

il niente si profila

tra i santi bizantini rigidi e stralunati.

Quale silenzio dietro le campane.

Sei cambiato: con orrore chiami i giovani

che si spingono a due passi dall’abisso

tanto simile a loro dismisura – non sei più tu

eppure riconosci qualcosa:

stavi dimenticando.

Quale deserto.

Ognuno è la montagna abbandonata.

Solo sai le parole

che filtrano le immagini-passioni.

 

Da quali domande

giovane prete

a quale assenza di domanda.

 

Verso quale tenebra t’incammini

acqua senza sponda.

 

Le parole che non vengono dette

 

L’estremo autunno si veste di festa

e d’una tesa malinconia,

come se qualcosa dovesse nascere.

 

I giorni vengono e vanno,

noi non diciamo parole senza rimedio.

 Non è per viltà

che ogni pensiero si muove nell’aria e subito dilegua:

ma è perché, lo vedi, ogni furia tra noi si colora

di compassione.

 

Puoi esserne certa: quando quelle parole verranno dette,

sarà tardi, eppure sembreranno premature, per sempre.

Quelle parole pensate tante volte

verrebbero d’improvviso,

improvvise come notte che nessun imbrunire addolcisca.

 

E, sebbene sappiamo tutte le ragioni, sarebbe senza motivo.

 

Ma, quando le parole saranno dette,

arderanno,

come ceppi nell’inverno che giunge,

e resterà calore a lungo. 

 

CARLO DI LEGGE – MULTIVERSO – ED.PUNTOACAPO – PP.72 – EURO 12,00

Recensione di Armando Saveriano

La copertina di un volume è un elemento paratestuale di impatto con una funzione molto importante nel rapporto di ricezione: deve sollecitare l’interessamento attraverso la curiositas che spinge il potenziale fruitore a prendere in esame il libro, a visionarne la quarta, a far scorrere lo sguardo sul contenuto delle alette, quando esse ci sono, come in questo caso. Abbiamo un tradizionale cartoncino goffrato di grammatura adeguata, atta ad impedire sollevamento e sgradevoli arricciature; in campo avorio/crema, riposante per gli occhi (e che ci accompagnerà nelle pagine interne), da un piccolo intaglio centrale sbuca un’immagine multicolore, che giustifica il sottotitolo (“Di quel colore che soccorre a volte”) ed è da esso giustificata. La comparsa o l’irruzione, il desiderio o l’evocazione del colore ricopre numerose allegorie che ne sottolineano le facoltà salvifiche o lenitive, attivatrici di endorfine. Il ‘colore’ stesso va interpretato secondo un ventaglio esteso di significazioni trasversali. La cromoterapia è la cosiddetta ‘medicina del colore’: postula l’indispensabilità del colore per trovare o per ristabilire armonia e equilibrio nel corpo e nello spirito; se poi non vogliamo ricordare tutta la semantica dell’eufemismo legata al colore, con espressioni gergali entrate nel linguaggio non solo familiare (es. vedere ‘i sorci verdi’, essere incavolato ‘ nero’, andare in’bianco’, provare una fifa ‘blu’, etc. etc.). I risvolti di copertina, che spesso danno spazio rispettivamente a una succinta estrapolazione dei contenuti e alle note biografiche dell’autore, qui sono vuoti; la quarta, che potrebbe ospitare un morceau in versi o in prosa, o anche uno stralcio critico (di autore famoso, di giornalista di terza pagina, citando la testata del quotidiano o del periodico letterario), offre la biografia e l’informazione per un contatto digitale con l’autore. La déchirure, l’entarsemulticouleur, polychrome, è un “close up”, un particolare di prodigioso segnatempo statico del Settecento, la meridiana LaghuSamrat dell’inusuale osservatorio JantarMantarsenza né lenti né parti meccaniche, costruito, per incarico del Maharaja SawaiJaiSingh II, appassionato di matematica e astronomia, nel centro di Jaipur, capitale dello stato indiano del Rajasthan, in 7 anni, tra il 1727 e il 1734. In questo caso, si tratta di un frammento di ‘màndala’-insieme del circolo dell’universo - , manufatto di origine tibetana. Il titolo della silloge anticipa il nucleo espanso della Variabilità in perenne evoluzione/mutazione, che regola o deregola un sistema di ordine e di entropia. L’astrofisica postula dal canto suo un ipotetico insieme sullo stesso piano contemporaneo di universi infiniti con minime, impercettibili o patenti differenze, secondo modalità e gradienti eterogenei. La speculazione letteraria SF – ma anche mainstream– si è impadronita immediatamente del concetto di multiverso, e di conseguenza il cinema, la TV, il teatro, i fumetti, l’arte (Maurits Cornelis Escher), realizzando monografie, romanzi, racconti, dando vita a pellicole, scenari, installazioni, quadri, coreografie e danze di audace, magniloquentecondizionamento. Per i romanzi, rimando al genere ucronico de La Svastica sul Sole di Philip Kindred Dick, a Flatlandia di Abbott, Assurdo universo di FredricBrown, Le Cronache di Narnia di C.S. Lewis, Il Popolo dei Notturni di Benjamin Read e Laura Trinder, The Infernal City di Gregory Keyes, Il talismano, di Stephen King & Peter Straub, Storia di Farnham (Farnham’sFreehold) di Heilnlein, Paradosso cosmico, turn-page vanvogtiano di Charles H. Harness, Alice nel Paese delle Meraviglie e Attraverso lo specchio, di Lewis Carroll; per ilcinema, bastino i titoli di It’s a Wonderful Life di Frank Capra (1946 – La vita è meravigliosa), From Beyond (ispirato ai racconti di H.P.Lovecraft, 1986); Ritorno al futuro (1989); Strade perdute di David Lynch (1996); Pleasantville e SlidingDoors (1998); The One (2001), DonnieDarko, Land of the Lost (2009), The Mist. Il volumetto elegante e pratico/funzionale di Carlo Di Legge, articolato in 6 agili sezioni (Multiverso, Noi siamo qui, Versioni d’Inverno, Passaggi dell’incerta luce, Di quel colore che soccorre, a volte, Conseguenze), per 34 componimenti complessivi, è il classico petit livre de poche, che diventa ben presto anche livre de chevet, dal momento che non si resiste alla tentazione/necessità di riaprirlo e rileggerne le pagine a caso, come un breviario o un mantra, un I Ching, mentre si percorre con passo cauto e devoto il bosco del Mon Song, una delle montagne sacre della Cina. D’altra parte, la buona o ottima poesia esige un approccio esperienziale che richiede lettura retroattiva, più volte rinnovata e sempre rinfrancante, nutriente e suscettibile di ‘insegnamento’aggiuntivo, di particolari che schiudono altre visioni, inedite percezioni per “l’orecchio con un occhio al suo interno”, come amo ripetere quando mi sforzo di definire il fenomeno di vista/ascolto, di immaginazione visuale/acustica attivato dal Poiein. Una delle non ancillari funzioni della Poesia è provocare un riverbero e favorire l’accensione di un inconscio che gradualmente o suddenly, tout-à.coup, affiora, senza criteri logici e consequenziali, sia che si scorrano in silenzio i versi sia che li si sussurrino a voce. Qui l’energia politonale nonconosce discontinuità, e l’andamento, sapientemente bilanciato, non squilibra o riduce l’io, il tu e il noi che fungono da artifizi retorici per rivolgersi comunque a sé stesso e contemporaneamente all’altro da sé (‘Je est un autre’, Rimbaud). “…Pensi te stesso/alla stazione ferroviaria,/viaggiatori che aspettano, treni sporchi// Tutto molto strano, ma ti sembra consueto. Ti rassicura” (Multiverso); “Nelle trame della luce e dell’ombra/mi ritorna l’eco dei miei passi./Perché non c’è nessuno, quest’oggi,/da salutare?/L’eco dei passi mi risponde poco:/chi doveva è venuto/ chi non poteva esserci non c’è.//Incalzo. Dice:/chi ancora deve venire, verrà…” (Ellissi); “…Qualcuno passa di qui per andare,/altri resteranno./Essere qui, nel punto dei passaggi,/è vedere te stesso, e gli uomini,/come nuvole sospinte e scompigliate/dal vento.” (Stanza di passaggi); “…Se c’è radura tra gli alberi neri/del tempo, dove adesso ci perdiamo,/noi là ci vediamo,sono certo;/se voglio, sento la tua voce,/è dolce/pensare che siamo là,con gli altri,/tutti insieme,/ancora…”(Amico); “…Credo che mi chiami perché vuoi vivere,/essermi vicina e sentirmi ancora;/per ammonirmi, con un po’ di gelosia, o guidarmi,/oppure anche perché laggiù dove siete/non vengo a trovarvi, e i fiori saranno appassiti.” (Eppure, ovunque); “…Domando all’esperienza: chi sei?/Risponde:colei/che si dà./Ai resti incendiati: chi mi cerca?/Dicono: chi non può trovarti./Dove sono? Verso la povertà, come tutti,/dove non c’è nessuno./E dove siete, cose/perdute?...” (La mendicante del supermercato); “…Non t’impedisca/la paura di perderti.//Possa tu, come allora,/ribellarti e fuggire/nello strepito rosso degli ulivi…” (I viali senza fine del pomeriggio); “Come ti parlano, i campi dell’inverno,/per dire la diminuzione!/Non sai se i battelli così lenti/che traversano il freddo/raggiungeranno un porto…” (Come ti parlano). La scaturigine della parola poetica in Carlo Di Legge ha linea tempo-spaziale curva, si flette e torna indietro, purificando nella sosta/ricovero del pensiero la tenuta comunicativa e lo sviluppo espressivo nella varietà lessicale, con effetti impressivi di notevole influenza, in special misura nel poemetto iniziatico ‘Multiverso’, ma anche ne ‘Il compagno’ e nella travolgente ‘Notizie da Amsterdam’, dove il poeta stesso si lascia sopraffare dalle emozioni, in una empatia boomerang, in un dialogo esplosivo, vibrante e dinamico con i tòpoi, le forme, i colori, i livelli fotografici delle strade, delle case, della chiesa, dei ponti, dei barconi, dei negozi, delle campane, dei selciati che risuonano dei passi fatidici di soldati fantasmatici, di ombre pellucide cui si sovrappongono le sagome dei turisti ignari e immersi nelle proprie curiosità pigre. Un lavoro eccellente che alterna e sovrimpressiona movimento e scatto fotografico testimoniale, da pittura lirica carica di quel presentire atavico che indugia con delicatezza e con incombente spasmo tra la bellezza della vita e il risucchio implacabile e crudele della morte. Qui –insisto – assonanze visive e morfologie sensoriali compongono un plastico collage, si inseguono, si fondono in astrazione e figurazione, creano una non luoghità ibrida, insieme corporea e calligrafica, ambigua proprio perché il poeta miscida con stupefacente dosaggio influenze e pennellate linguistiche sulla stessa tela/pagina/sequenza. E’ un linguaggio alternato di crepitanti meraviglie, un fluente lunario di atmosfere, sogni, flussi malinconici, come se fossero il suo autentico, personale ‘memoir’. Il lettore, pour sa part, sperimenta un incontro folgorante di talento e ispirazione che edifica un senso di appartenenza morale, di (rara) condivisione, che abbrevia e colma le distanze tra divario spirituale e sipario di carne, tra reale e virtuale, in genere a pencolare tra accettazione da adattamento e segno ‘joyeux’ di protesta. Di Legge dà sfogo e ‘slargo’ agli altrove linguistici e immaginifici del multiverso, che potremmo concepire in cerchi seriali che non si sfiorano ma si intersecano come una serie di insiemi differenti, quasi dei diagrammi di Eulero Venn; attraverso fluvialità (‘Alto Mare’, ‘Multiverso’, la bellissima, conclusiva, coreografica, filosofica, simbolista e ‘politica’ ‘Noi siamo come una città’) e capolavori di essenzialità, sul filo delle lezioni hegeliane di particolarizzazione e concentrazione (‘Dicono’, ‘Dei tuoi pensieri’, ‘Il passo successivo’), tra soffio di mélodie francese e Lied tedesco, alternando il collante della pluralità  e della moltiplicazione alla brevitas di parole-immagini immerse nel colore del senso musicale e nell’Erlebnis di malinconia, fobia di finitudine, desolazione selvaggia della malattia, ove sempre la sorte, il caso, il cuore giocano una partita a spareggio, l’autore salernitano accerchia la natura stessa della poesia e il suo carattere magico di lente da fotocamera e corde di violino nell’accensione ‘terribile’ e seduttiva di una miccia di entusiasmo (“Fuoco sempre vivo, incendio, incenso che brucia/tra le ceneri del tempo”) che pure conosce (‘deve’ assolutamente) hybris e catarsi, la quale platonicamente è di fatto proprio la parola, il logos, capace di riscattare l’anima dalle tenebre.

                                                                                                           

                                                                                                                                                                                           Armando Saveriano

 

NOI SIAMO COME UNA CITTA

 

Noi siamo come una città:

periferie, orizzonti,

viaggiatori e avventura,

orientarsi e perdersi.

Siamo storie di persone raccontate da persone,

piacere a raccontare,

tristezze a ricordare.

Incontrarsi per sempre,

vedersi una volta e neanche saperlo,

linguaggi che accolgono,

linguaggi che combattono,

linguaggi che ingannano.

I nostri pensieri sono un’immensa città.

Noi

siamo pensieri dell’immensa città.

Il cielo dei pensieri

è un’atmosfera dove nuotano pigramente

o guizzano e restano e migrano inquieti

stormi di milioni di uccelli.

Noi siamo come il centro di un’immensa città,

i piani alti della notte illuminati di luce soffusa.

Appartamenti inaccessibili

sembra custodiscano

chi sa quale segreto dell’essere.

Noi siamo come un giardino in città.

Radici di un grande giardino, memoria e affetti.

Innesti riusciti,

significati.

L’albero frondoso che sappia proteggerci.

Libertà. Verità

di nessuno,

di grandi strade silenziose e sporche.

             

Carlo Di Legge