Lucia Triolo - Dialoghi di una vagina e delle sue lenzuola

Lucia Triolo

Dialoghi di una vagina e delle sue lenzuola

Racconto e testo teatrale

 

Ciao Nicola,

è da tempo che desideravo comunicarti il mio proposito di scrivere di noi, incastonando frammenti della nostra storia in un bizzarro racconto. Ma non mi era facile trovare le parole giuste ora che il miracolo della nostra reciproca percezione è quasi spento. Speravo in un momento di maggiore intimità e qualcosa che mi proveniva da te sembrava muoversi in questa direzione. Ma poi questo segno è svanito. Così penso che scriverti anche di questo – ed è paradossale – sia la cosa migliore. A volte nella vita accade qualcosa. Non spesso. Anzi credo che a molti non succeda mai. Intendo, qualcosa che ti fa fermare non perché tu lo voglia, ma perché è ciò che accade a fermarti. Quasi una magia si sprigionasse da un luogo a te ignoto o, se preferisci, da nessun luogo e, nonostante ciò, tu non potessi ignorarla. Quasi la mano di qualcuno a te ignoto o se preferisci, di nessuno, con tocco lieve ma fermo, deciso, ti bloccasse dove sei. Un attimo. E poi da lì tutto riprende in un altro modo. A me è accaduto. Tutto qua. Semplice, no?

Sai bene, non è certo a te che devo dirlo, che tipo di incontro rapido e intenso sia stato il nostro. Eppure in quella goccia di tempo è accaduto qualcosa e mi sono fermata. C’è una storia in questo arresto. Poi la storia finisce come mai fosse stata e si riprende la via. Finisce tutta intera, in se stessa, in una sua lancinante compiutezza, non in qualcos’altro. E il segreto resta chiuso, non svelato. Eppure indietro non si torna. Se torno indietro con la mente, non c’è un “prima di incontrarti”. Incappo in quelle ore, in quei nostri momenti così nostri e così, ormai, irripetibili e là resto prigioniera come in una stretta del cuore. Sento a tratti la tua presenza in me come una ferita. E subito la tua assenza come lama di coltello. Ma è una pena che accetto e che tengo come tra le mani. Non intendo privarmene. Non mi fa paura. Non mi travolge. Non mi intristisce. Non è sterile ma feconda. Mi fa viva e mi fa vivere. Mi fa ancora sognare l’impossibile e inseguirlo. Chi ha mai detto, del resto che la verità di un amore debba venir misurata dal tempo e dalla capacità di resistere all’usura dei giorni? Chi ha detto che un amore che soccombe alle difficoltà della vita non sia stato amore? Fra i mortali è giusto che anche l’amore, se autentico, sia mortale. Lo so che la nostra storia, così passionale, violenta, reale, così vivida come una vampata in mezzo alla legna secca, potrebbe sembrare agli stupidi una di quelle fatte apposta per finire in brace e poi in cenere nel volgere di una notte. Ma tu sai. E io per parte mia non ho dubbi. Io so chi ho incontrato. Lo so perché anche tu ti sei fermato. Ti ho sentito stare a respiro sospeso dove anch’io trattenevo il respiro. E a chi vuoi che importi come e perché finisce un amore? Quel che conta è il miracolo, l’inizio. Dopo, dopo l’amore, dice un celebre adagio† – e il dopo è per sempre – chiunque abbia anima è triste* e di questa trasognata tristezza cui non rinuncio, se me lo consenti, io farò carta e penna.

Fra noi, fino alla fine, tutto fu inizio. Perché l’inizio saturava le condizioni dell’amore, come si colma un calice fino all’orlo, come il sangue affiora tra i margini di una ferita fresca. Non so dirlo meglio: di che cosa abbiamo fatto esperienza? Di me? Di te? Di un che di estraneo e di assolutamente singolare e tuttavia non pronunciabile che alla prima plurale? A questa inesausta esuberante iniziazione, a questo mio venire al mondo, nella mia storia di donna, ho assistito all’insegna della meraviglia e della sproporzione. Perché la nostra passione esigeva e snidava nella mia femminilità molto più dell’amore che pensavo di poter ospitare. La passione d’amore! Questa immensa dilatazione, questo sogno impossibile di possedersi reciprocamente che fa impazzire gli amanti e li lega senza scampo, ciascuno per proprio conto, al fantasma dell’altro... Oppure no! Oppure il sogno si realizza, forse, all’insaputa di entrambi in qualche parte remota dell’universo, nell’infinito della distanza, nella danza senza fine dei corpi celesti. La leggenda deve tramandarsi!

Occorre scriverne come si scrive un nome per cento e cento volte in mezzo ai boschi sulla scorza di sughero degli alberi (credo che lo facesse Orfeo col nome “Euridice”,

*“Post coitum, omne animal triste…”

 

ma certo, nel suo Aldilà, Euridice lo faceva con il nome “Orfeo”). Qui c’è un “per sempre” che non va tradito. Ho detto prima che l’amore è mortale, non mi contraddico adesso: il mio (il tuo) amore lo sento raccolto tutto nell’ascolto di quel “per sempre”. Al seguito di quella voce che ormai non ha più suono come quella volta in cui mi dicesti “amore” con non so che strana inflessione. E d’improvviso in un’angusta cella della mia anima in cui pensavo di stare da sola, ci fosti tu. Tu solo, perché – meraviglia! – là non c’era comunque posto che per uno. E mi sentii perduta. “Non temere, farò in modo di stare per sempre dentro di te” – mi sussurrasti quella notte, con un’intonazione lapidaria, assoluta. Le tue parole dicevano il vero. E dopo... dopo io tutta di carne, stretta nella penombra della mia cella vuota, per sempre rivolta, disposta, esposta all’amore. Ma anche tu ora non aver timore. Non si dirà che di me e del femminile in questa scrittura metà drammatica e metà lirica, metà seria e metà buffa, metà barocca e metà naif. Nella mia favola, l’azione d’amore resterà sullo sfondo. Si giocherà dietro le quinte come nelle tragedie classiche dove gli eventi decisivi sono portati al cospetto degli spettatori solo a cose fatte, nei dialoghi fra gli eroi e fra gli eroi e il coro. Sullo sfondo, appunto, l’azione. La storia è quella di due amanti che hanno il meraviglioso dono di amarsi a distanza. E si amano, dunque. Si amano fino a bruciare fatalmente quella distanza e a lasciarsi, nel culmine della passione, non perché non si amino più, ma perché non possono più amarsi.

Nei Dialoghi la storia, ho pensato di metterla in scena, però, in modo bizzarro perché ai primi sei in feedback si oppongono inverosimilmente, come due onde che si schiantino l’una nell’altra, gli ultimi tre in presa diretta, quasi dal vivo. Mi serviva una specie di deus ex machina e l’ho facilmente trovato in quello che a noi è stato propizio fra i tanti demoni che girano a buon mercato nel mondo della comunicazione così fragile e ardimentosa dei nostri giorni. Ma sulla scena della mia favola il Web o la rete, chiamalo come vuoi, è tessuto che si propaga, si rapprende, si privatizza in una specie di appendice o di doppio, e si fa personaggio di lino e cotone, di esclusiva proprietà della protagonista; “Lenzuola” intimo interlocutore, come il coro sulla scena della tragedia. E insieme parte di lei o meglio, contro-parte. Perché lei, l’eroina, sulla scena, si sdoppia, anzi si triplica, non senza conflitto e sofferenza e dramma; si fa in tanti, si moltiplica come tessere di un caleidoscopio, come schegge di un sasso o di un asteroide che, nell’urto con un altro asteroide, va in pezzi. Ma è sempre quell’unico corpo di pietra ad andare in pezzi. Modifico il mio nome, dalla tua voce tante volte accarezzato, quel minimo che basta a trasformarmi in una parte di me e insieme di ogni donna. Vania diventa Vagina. Ma Vagina è anche Anima. “Anima” può valere nella nostra storia come l’organo dell’amore umano. È il nome del desiderio. Per questa sola ragione gli amanti possono dire sinceramente “ti amo con tutta l’anima!” oppure chiamarsi reciprocamente “anima mia”. E il senso vivo di certe metafore, la loro intensa verità, non mi viene forse da te?

A questo non credo di dover aggiungere altro. Se in qualche parte di te c’è ancora l’uomo che ho incontrato, se non ti tirerai indietro e non respingerai inorridito il pensiero delle mie schegge, io andrò avanti. Il materiale già scritto non mi manca e di qualcosa tu hai già preso visione. Da questo scrigno pieno di appunti amati, ho attinto a mani piene i pezzi da incastonare nella storia. Tu sai bene. Un lavoro a due mani dunque? Beh, in parte, in un certo senso! Anche se scritto, un po’ a fatica, con una mano sola. E perché dolertene? Non ti ho sempre invitato, accoratamente invitato, a non lasciarti alle spalle la bellezza di quel che insieme abbiamo vissuto? A fare di questa bellezza e della pena notturna che, forse, anche tu ti porti dietro, una compagna, una dura alleata nelle fatiche del giorno? Se nella tua vita di uomo hai un cassetto della memoria nel quale conservi le cose più care e belle, mettici dentro anche la nostra storia. Non distruggerla, non farla svanire nel nulla, in un facile oblio. Ho paura che tu lo faccia! Non ce n’è ragione: stai sicuro, non intralcerà la tua quotidianità, la illuminerà come del resto fa già con la mia. Rimani un poco dentro il mio amore come io nel tuo. Non per continuare a viverlo, no, certo, ma per continuare a farsene un po’ vivere, questo sì! Per quanto mi riguarda, oltre la nostra storia io non andrò. Non c’è un dopo. Dopo l’amore c’è soltanto l’amore! Che altro dirti? Spero tu capisca. Il silenzio varrà come assenso. Che altro darti? Un abbraccio assolutamente incolore.

Vania

 

 

 

 

 

 

Dialoghi di una vagina e delle sue lenzuola

Mise en espace

 

La scena si apre su un ingrandimento del quadro di Courbet, L’origine del mondo, oppure le tre attrici sono in scena dentro il quadro o dentro specchi che lo riflettono.

Le tre attrici sono di fronte al pubblico ma ognuna di loro sulla nuca indossa una maschera che si vedrà solo quando smettono di parlare dando le spalle – in modo ostentato – al pubblico.

L’attrice che interpreta VAGINA ha un mascherone con le foto di 4/5 vagine diverse.

L’attrice che interpreta ANIMA ha una maschera con il viso di Eve Ensler.

L’attrice che interpreta LENZUOLA ha un mascherone con una foto di lenzuola smosse.

C’è anche un attore – un maschio apparentemente senza maschera – che di continuo attraversa la scena, con una sacca in spalla, senza dire nulla; parlerà qualche volta... come vedremo.

 

Anima: «V come vendetta diceva quel fumetto, quel film. Io dico V come vagina». L’attrice si gira. Intanto l’attore attraversa lentamente la scena ed esce; farà così praticamente senza interruzioni ma con studiata lentezza... Talvolta fermandosi davanti al pubblico e aprendo la bocca come per parlare... Ma poi scuotendo la testa e uscendo.

 

Vagina: Apre un libro e legge: «La vagina è rimasta a lungo l’organo del corpo umano meno studiato».

Mostra la copertina del libro. È Storia di V. Biografia del sesso femminile di Catherine Blackledge. Pausa poi riprende a parlare: «Eppure la vagina è la ...» leggendo: «... sede della creazione della vita e del piacere femminile, archetipo della fecondità della terra e luogo misterioso della sessualità». Si gira.

 

Anima: «Invidia del pene?» ride: «Ma caro Freud, ti sei mai reso conto del tuo errore? Ti sei vergognato almeno un poco? L’invidia è per il grembo, per la donna creatrice». Fa per girarsi ma ci ripensa... Con un braccio o con un gesto blocca l’attore che passa e, cambiando voce, dice: «Nell’Eden, all’inizio, Eva è sola e si annoia». Poi rivolgendosi all’attore: «Così Eva chiede a Dio di creare un essere simile a lei ma anche un po’ diverso che le faccia compagnia».

 

L’attore: Tira fuori dalla sacca una maschera, quella classica del Dio barbuto e rivolgendosi ad Anima dice: «Sì, Eva, d’accordo, ti accontenterò, farò qualche esperimento, partendo da una tua costola». E se ne va.

 

Anima: «Passa un po’ di tempo, poi Dio torna da Eva».

 

L’attore: Rientra in scena sempre indossando la maschera classica di Dio: «Guarda Eva, ho tentato ma... il risultato non è un granché».

 

Anima: «Gli hai dato un nome? Qual è?»

 

L’attore: «L’ho chiamato Adamo... ma guarda che non mi è venuto molto bene».

 

Anima: «Non importa – dice Eva – mi accontenterò».

 

L’attore: «Se proprio lo vuoi…»

 

Anima: «Per quanti difetti abbia questo Adamo mi farà compagnia». Sussurra: «Nella buona e nella cattiva sorte...»

 

L’attore: «Certo ...» esita: «Forse... se non avrà altro da fare...» poi si avvicina ad Anima e le dice proprio in faccia: «Ma guarda che questo Adamo, l’uomo insomma, mi è venuto anche mooooooolto permaloso e dunque questa storia che è nato da una tua costola... è meglio che lui non la sappia».

 

Anima: «D’accordo – dice Eva –».

 

L’attore: «Mi raccomando Eva... Deve rimanere un segreto fra me e te...» esita, si gira e toglie la maschera buttandola in terra, fruga nella sacca e prende un’altra maschera, quella stilizzata della “Grande Madre”, rapidamente la indossa e, girandosi verso il pubblico, dice ad Anima in un fiato: «Deve rimanere un segreto fra me e te, fra donna e donna». Poi getta la maschera fra il pubblico ed esce di scena.

 

Anima: «All’inizio era la Grande Madre... Tutte le religioni erano matriarcali. Poi arrivarono i maschi. E si sa cos’è successo». Si gira.

 

L’attore: Passa lentamente borbottando di continuo: «Porca Eva, porca Eva».

 

Vagina: «Qualche secolo dopo arrivai io, Eve Ensler, scrivendo “I monologhi della vagina”. Un bello schock». Si gira.

 

L’attore: Passa di corsa, borbotta: «Porca Eve Ensler, sfacciata, svergognata...»

 

Lenzuola: «Senza Eve Ensler io non avrei trovato il coraggio di scrivere i miei dialoghi».

 

Vagina: Velocemente: «Vagina è parola invisibile». Si rigira dando di nuovo le spalle al pubblico.

 

Lenzuola: «Nei Monologhi della Ensler, il segreto della vagina è violato, ferito, mutilato, esposto alla luce solo per essere offeso».

 

L’attore: Continua a passare, ma in silenzio.

 

Vagina: «Monologhi». Di nuovo si gira.

 

Lenzuola: «Nei miei Dialoghi, invece, se ne racconta la naturale costitutiva vocazione alla felicità, alla gioia... Tuttavia è lo stesso segreto. Nel V day, nato dal testo della Ensler, infatti, il nome della vagina è legato a quello della vittoria». Fa il segno (la V della vittoria) con le mani poi una pausa: «Mi piacerebbe che questa affinità, certo non visibile e nemmeno cercata, si lasciasse cogliere da sé».

 

DAI DIALOGHI: POESIE

 

AL MODO DI LILITH*

 

Facciamolo entrare

facciamolo entrare

grida il coro di donne, il mio coro

ha in tasca il no di

Lilith

guardate lo sguardo

l’azzurro suo sguardo

Lilith ancora ci insegna.

Io sola tu solo

sarà ieri o

forse fu domani?

E canterai una veglia

a Lilith

e danzerai un pensiero

sul suo antico viso.

Se varco in trambusto le ore tu solo puoi

farmi sognare

e penetri

il tempo e le cose

e le sovverti

così come fai con me.

Il cordone si avvolge

attorno al tuo dito

da un lontano arcipelago

del mio ombelico.

 

 

* Nel mito ebraico, prima moglie di Adamo. Si rifiutò di sottomettersi a lui. Emblema del femminismo.

 

SE POTESSI

 

Se potessi parlare

con attesa d’aria

aspetterei la tua bocca

muoversi

nello spicchio di luce

che è in me.

Ma tu chiedi qualcosa

che non so ancora dire

un graduale apparire,

una linea appena tratteggiata

e già convulsa

come il graffio

del ragno e la sua presa.

Se potessi un inizio,

con bisogno di volo

adotterei l’indole del condor

in picchiata sulla preda.

Sollecita carezza fende

e artiglia a sangue

il vento.

Ma tu vuoi darmi

il latte delle tue ansie

e vecchie storie

e specchi deformanti.

Se potessi abitare le città dei respiri

con urgenza d’amore e

compimento

 ...

Ora, dove l’occhio si posa

lì resta un segno.

 

DESIDERIO

 

Il mio desiderio, il tuo, si conoscono, si amano

si cercano.

Non possono più incontrarsi ora. Ma non si ignorano

si raccontano.

Unica la domanda:

Dove sei – chiedo – dove il tuo desiderio di me?

Dove sei – chiedi – dove il tuo desiderio di me?

Poi d’improvviso l’immagine, il dono: “L’ho fatto per te!”

Rapido come un lampo, lacerante come un crampo.

E io. E io che non sapevo più tu ricordassi.

Invece, bruciante è il tuo ricordo, intollerabile al tuo cuore.

Scottante alla mia vista.

Ho incrociato le braccia sul seno per avvinghiarlo,

per non farlo scappare quel tuo dono.

Il mio desiderio, il tuo, si conoscono si amano e... si

nascondono.

Fuggi fuggi.

Mai la distanza sarà così grande,

così incolmabile da non svanire d’un tratto

dentro un solo momento

del tuo desiderio di me

del mio desiderio di te.

 

 

FORSE

 

Forse sono stata il tuo errore.

Non è bello, sai, sentirsi l’errore di qualcuno!

Forse sono stata il tuo peccato.

Non è bello, sai, sentirsi il peccato di qualcuno!

Forse sono stata il tuo veleno.

Non è bello, sai, sentirsi il veleno di qualcuno!

Io sono stata il tuo Amore.

È bello, sai, sentirsi l’Amore di qualcuno!

 

 

 

 

 

 

Postfazione

di Armando Saveriano

 

La cifra di Lucia Triolo, senz’altro innovativa, la rende indegna di essere inscritta in parametri standardizzati, tenuto conto che la sua voce permutante si muove tra la luce e l’ombra, l’Angst e la joie, la laetitia e l’angor, il labirinto dell’inconscio e l’abreazione dell’inconscio liberato, gli opposti delle dimensioni dello spirito; uno spirito erudito e arguto, che sfugge a semplicistiche o scontate definizioni, capace di librarsi sotto architravi di intuizioni o alitare sul pelo percettivo del mare ancestrale e insinuarsi nelle inaspettate colombaie dell’umiltà di una presa di coscienza laica e sacra. Un colpo d’ala, die Flügel, una ispirazione estesa dalla poesia lirica-antilirica alla fusione armonica con la filosofia: entrambe golfo per la conoscenza della realtà e l’esplorazione di tutto quello che si spinge oltre la miopia umana o la neghittosità che appiattisce e mortifica, in primo luogo quel che concerne la sensualità del desiderio.

La chiave di quest’opera è uno studio metamorfico sul desiderio. Desiderio considerato in senso onnicomprensivo, diciamo pure portatore e/o agens di ambiguità virtuosa, non limitato alla sfera dei piaceri sensibili, ma “lacanianamente” originato nello scarto tra la domanda e il bisogno, una attività dell’autocoscienza che per approdare al simposio della verità e dello spirito deve cercare se stessa e si cerca nell’Altro da sé. Quindi Triolo poeta senz’altro, narratrice, dialoghista e drammaturga seminconsapevole: soprattutto, però, fine indagatrice della concezione del mondo e dell’essere, delle leggi e delle contraddizioni, un’autrice che lancia il guanto della sfida, che ingaggia una scaramuccia vincente con la conoscenza. Ma in alcune fasi, in alcune non accessorie connotazioni, in aperto campo, più che scaramuccia si profila come “battaglia”.

Die Sinnlichkeit der Begierde (il tedesco è la lingua della precisione), quell’appetizione come “attività di mancanza” hegeliana, comprende e va oltre le pulsioni sessuali – Sexualtriebe – e quelle dell’IO – Ichtriebe – per approdare all’autoconservazione – Selbsterhaltungstriebe – e al dinamismo vitale di quella autocoscienza desiderante il bisogno di riconoscimento dell’uomo da parte dell’uomo e del difficile e delicato equilibrio di forze tra maschile e femminile nella sfera della verità sfaccettata, giammai valutabile/valutata in senso assoluto.

Dialoghi di una vagina e delle sue lenzuola può dar l’impressione di un titolo molto astratto, dalla trasversalità cara a Robert Desnos, oppure una dichiarazione di sessualità esplicita alla Arsan e alla Jong, ma l’autrice non vuole épater les bourgeois – incarico e pretesa quasi disperanti e patetici, oggi, in una società libera di frugare nel linguaggio picaresco e nell’adoperare con disinvoltura un eloquio tanto esplicito quanto lontano dalle antiche reticenze e dagli antichi pudori del parlare, in isprezzo e rifiuto delle interdizioni linguistiche (già il termine vagina – e il rafforzamento allusivo offerto dall’accoppiamento con la parola lenzuola, o meglio con il suo sottosenso) – pertanto la sua è una non corriva e in taluni punti anche “innocente” e ironica rottura degli argini, un adeguarsi – con stile e eleganza, con forbitezza del pensiero espressivo – al bisogno di espungere ogni pregiudizio, ogni ipocrisia, con le circonlocuzioni, le omissioni pudìche, le terminologie velate. Non un’operazione di libertinaggio, ma un atteggiamento scaturito dalla vocazione spontanea verso l’apertura libertaria della franchezza. C’è, forse, in nuce, in interiore, così come avviene

nelle evoluzioni alle quali approda in letteratura la trasmutazione, la metamorfosi stilistica, un piacere di sconfessare il sacro, ma senza esibire bandiere con stemmi araldici. La metamorfosi espressiva nella storia della letteratura occidentale consiste nella sostituzione del linguaggio aulico e classicheggiante con un linguaggio realistico, che favorisce gli elementi più pratici e intimi del quotidiano. Feuerbach ci faceva notare il passaggio dal sermo sublimis al sermo humilis, senza che però in quest’opera facciano capolino il triviale e la volgarità, o la sciattoneria autorizzata altrove da una dichiarazione scandalistica.

Qui la poeta, assecondando il proprio sostrato ideologico e culturale, e quel fulmen intuitivo – passato per la libido, ardenti studio – che è prerogativa della sfera creazionale, e che esercita il maggiore e principale effetto trainante, aggrega alcune idee guida e formidabili simboli, tessendo una insopprimibile trama associativa, ispirata alla corrente dell’Eros mirabilis. L’ordre o il désordre poétique va seguito senza scetticismi. Triolo aderisce a un caposaldo filosofico di Karl Raimund Popper, che vede la conoscenza alla continua riprova, costantemente fallibile e rettificabile. La via dell’Eros è forse l’unico iter, l’unica via, l’unica soluzione di percorso per il diritto a una verità moderatamente accertabile, ammesso che si sia in grado di decrittarne i codici, di penetrarne e decifrarne i simboli, dal momento che in genere la cultura novecentesca in particolare tende a definirla inconoscibile. L’Eros e il sesso formano precise topografie, strutture e dinamiche, sia che li si consideri congiunti sia invece che li si voglia inquadrare come disgiunti; topografie, dinamiche e strutture che sono eminentemente nemiche di pregiudizi e pretestuose barriere; Eros e sesso costituiscono una dilatazione della conoscenza, una ulteriore e non marginale emancipazione, anzi quasi una rivoluzione epistemologica dai riflessi sociali.

Triolo coglie intelligentemente questo aspetto e lo sublima nel metalinguaggio di una poesia che sa direzionare in differenti manifestazioni, che toccano la prosa epistolare, la confessione e il teatro, seppure un teatro da camera, che fa della parola e delle sue infinite irradiazioni il fulcro più potente. Freud illo tempore ha sciolto i legacci, ha tolto il morso di concezioni retrive, liberalizzando l’Eros e arricchendo la conoscenza in una indagine razionale degli aspetti in ombra del comportamento sessuale, scevro dai condizionamenti e dai malintesi prodotti (in buona e mala fede) dall’interdizione, da quella che qualcuno ha chiamato congiura del silenzio benpensante e codino. Ma – occorre precisarlo – Freud non ha mai predicato l’abbandono acritico al principio del piacere come soluzione assoluta e assolutoria. Il rituale amoroso secondo la poeta-femme à penser possiede intrinseca una “sacralità” che se trasfigurata avvilisce e mortifica l’etica sessuale di tutto quel che già Dante “cantava” in camera si puote. Triolo procede con speditezza, finezza e sincerità secondo questo principio, tenendo presente in via periferica, secondaria, l’imprimatur di Adorno o di Sartre; mentre certi erotologi o erotomani ingaggiano uno squadrismo del sesso ossessivo, ossessionante e ubiquitario, Triolo con i dialoghi cerca valori fondamentali, realtà meno effimere e volgarmente ludiche, che scavalcano la tumescenza degli organi di riproduzione, e toccano sublimità e gratificazione; ancor più l’Eros, oltre che desiderio, amplesso, appetito, libido, è fantasia, creazione, manifestazione dell’uomo autodiretto e non eterodiretto e manipolato dal preconcetto ambiguamente indotto; Eros è philìa, agàpe e caritas, dono reciproco, mutuo... mutuo e reciproco disinteresse e addomesticamento dell’egoità. Eros è un principio cosmico che soffre la ristrettezza in ingabbiature meccanicistiche e quantitative; inoltre è in eterno antagonismo con Thànatos e solleva l’individuo dalla condizione generica dell’animale, perché

il suo amore, l’amore umano, pur conservando innegabilmente e inequivocabilmente un fondo sabbioso di tensione e drammaticità, è promessa/speranza/rispetto, disinibizione che non poco racchiude di venerabile e di ideologico nella gioia, nel trasporto, nell’esaltazione e in uno scarto di malinconia. La poesia di Triolo affascina perché sa metter su aspetti scenografici che contraddicono l’idea dell’amore erotico-sessuale propenso a mascherare l’apatia della coscienza e a scaricare pulsioni deterministiche attraverso la banalità di un complesso di norme biologiche e genetiche. I dialoghi compongono un insieme seminale che trova e proietta aggetto in altre arti, irradiano una vis espressiva formidabile che non fa del libro una realtà ancella di esempi correnti e recenti privi dello scalpitare del sogno e dell’attesa, disegnano una stratigrafia propria, ritagliano uno spazio che non inciampa mai nell’indeterminatezza, ma stabiliscono semmai un’ansia di pienezza e di vita, esorcizzando il metus vani hominis. Triolo respinge i pregiudizi metafisici neo-platonici, tardo-ellenistici e cattolico-borghesi, che etichettavano impuri corpo e natura; Plotino si suggestionava tacciando di vergognosità l’aspetto carnale del corpo, per tacere del puritanesimo e del calvinismo ascetici e iper-rigorosi all’eccesso. La poeta contrasta con eleganza le residue nostre inibizioni angosciose, le ombre erinniche de la honte et de l’avoir honte, e lo fa anche in modo simpatico, richiamando alla memoria culturale i sapidi/lepidi, irresistibili dialoghi di Luciano di Samosata; ebbene, la garbata spregiudicatezza, se vogliamo l’ineffable aisance, la désinhibition indicible, si fa accogliere di buon grado come oppositio alla falsità e all’ignoranza e si dispone in quanto veicolo, opportunitas di crescita vantaggiosa, rispetto all’artato (sovente inconsapevole) impantanamento in retrive posizioni di comodo, che si vorrebbero imputrescibili. Poiché c’è un’altra considerazione che scaturisce dall’analisi: l’uomo comune è paradossalmente diffidente della libertà, preferisce la convenienza, i compromessi, il sonno dogmatico, l’inerzia della volitività e gli accomodamenti di una realtà eterodiretta, anche nel campo erotico-sessuale. Il lavoro della Triolo intrattiene, diverte, avvince, incuriosisce, ma non ha invece carattere di un pur letterario, intravascolare passe-temps; ha o si riserva una vocazione talentuosa per combattere la perdita di significato, la sensazione del vuoto, la lacuna di traguardi assiologici o di più generiche mete. Le tempérament passionné che si evince dalla bellissima, limpida, lucida e lucente lettre-aveu/confession a Nicola, è più di un utile e chiarificante preambolo, rappresenta il nucleo di un’energia dinamica non dissimile dall’élan vital di Bergson. Le parole, il tono, i timbri abbracciano il tutto, suonano una melodia universale quasi archetipica, il dolce principio del piacere che non evade o rinnega quello più pragmatico e amaro della realtà. Una pagina straordinaria che da sé vale tutto il libro, tutta l’opera dalla struttura simmetrico-speculare. Triolo esprime gratitudine a Eve Ensler e ai suoi Monologhi della Vagina, ma è anche in maniera sottaciuta debitrice a Wedekind e all’icona della sua Lulù, pur con le dovute differenze in disinclinazione, che evidenziano il contrasto drammatico in autori come Goethe, Büchner, Ibsen, Strindberg, Schnitzler e – per l’appunto – Wedekind. Questo mélange dell’ingegno che coinvolge e assomma poesia, prosa, inserto epistolare, libido confessionis e teatro viscerale, spiazzante, anche “edonistico” nell’accezione di riflesso contrario delle “virtù ascetiche” del sacrificio e della rinuncia, e che forse forse involontariamente ma inevitabilmente conserva (molto) in sottofondo una forma della vis animalis di Keplero, va letto con gli occhi del regista musicale, e se ne anticipa e desidera la rappresentazione scenica, perché la sostanza intellettualmente provocatoria, oscillante tra mito, filosofia, esistenzialismo e mise en abîme (nell’accezione di sogno dentro sogno, di azione nell’azione, di rappresentazione che gode del massimo risalto dei concetti e del logos) si oppone con fermezza ed estetica filigrana alla mercificazione di cultura e parola in un mondo organizzato (e penitenziato) in logore, demagogiche, infestanti immagini sociali.