LA CASA DEI CORVI

 

Un concorso letterario esigeva la trama gialla, l’utilizzo del coltello e l’ingrediente gastronomico. La sfida era stimolante. Fu immediatamente raccolta e il risultato –eccolo–  spedito. Degli esiti di quel concorso non si seppe più niente. Ora lo sottopongo qui al severo giudizio dei fatidici miei quattro lettori, con l’augurio che ne gradiscano le fragranze all’humour nero. Anzi, ‘piuma di corvo’.

Mentre attaccava con voracità il piatto goloso che il cameriere (o l’oste in persona?) gli aveva appena servito, un pasticcio di carne, verdura e legumi –straordinario– , Donato Spinapolice si sorprese a riflettere, in un lampo, sulle coincidenze beffarde che il caso spesso e volentieri gli riservava.

Si godeva il fresco della pergola, seduto al tavolo rustico della piccola trattoria inaspettata, che sbadigliava sulla piazzola subito dopo le curve e gli spigoli del Vico dei Coltelli, dove le facciate delle case quasi quasi si baciavano al garrito della biancheria e dei vispi strofinacci appesi ai fili del bucato.

E, manco a farlo apposta, l’amico Costantino gli aveva regalato, per il suo recente compleanno (accidenti, cinquantotto anni!), un elegante coltello artigianale iserniano, con lama incisa in acquaforte e manico in corno di bufalo. Porca malora! Spinapolice sogghignò.

Era, attualmente, un bene accorsato e battagliero commerciante in via Medina, a Napoli, accanto alla sartoria famosa per le camicie interamente a mano, le cravatte con lavorazione “sette pieghe”, i pregiati tessuti John G. Hardy.

Una invidiabile carriera, se si pensava al vespino scorticato con il quale, giovanotto, mordeva, giròvago, strade accidentate nel cuore dei paesi vesuviani, o sparsi per i Monti Lattari, gracchiando nell’alto-parlante l’offerta di molare forbici e quant’altro casalinghe acide e nonnine di quercia dietro il banchetto delle sigarette di contrabbando avessero da restituire a lucentezza perfetta e a perfetta affilatura.
Una vita fa, pensò, accompagnando la forchettata di spaghetti alla chitarra con un morso al cozzetto di pane casereccio, arruscatiello, come piaceva a lui.

In molti avrebbero storto il naso, guardandolo unire in bocca pane e pasta, come un cafone; si abbuffava da schifo, alternando a capriccio secondi robusti a primi piatti ipercalorici.

Ma lì non si trovava in un ristorante chic a Posillipo, per fortuna (e inoltre l’olio era sopraffino, garantito, andava per nominata in tutta l’Irpinia, a prova di indigestione): gli avventori della trattoria erano dipendenti a riposo, coppie di passaggio interessate a esaminare la zona (ricca di allettanti opportunità per investire nell’acquisto di una casetta rustica a buon mercato), braccianti, padri di famiglia in canottiera e almeno un bottone mancante sulla patta. E una impepata di bimbetti sudici, precoci attaccabrighe, dalla frignata facile, la bocca e la punta del naso lucidi del condimento di pettole e fagioli o di salsa al cinghiale. Genuinità ruspante di Arcodargento e dintorni.

Donato era infastidito dal baruffare dei bambinelli, dalle corsette fra i tavoli, dai capricci soliti,  dagli abulici richiami delle madri, alcune impegnate ad allattare o a controllare che i bebé non se la fossero fatta sotto.

Vuotò in un sorso il bicchiere e allungò la manona per afferrare la bottiglia di Aglianico Taurasi.

Il paese era impermutato, come se la mano di Francesco De Sanctis l’avesse preso pari pari da una fiaba tramandata da generazioni di canuti coltivatori e messo sotto una campana di vetro da esporre a San Gregorio Armeno, il mercato dei presepi, a stuzzicare la querula, appiccicosa curiosità del flusso di turisti: allampanati slavi o  clonati pigmei dalla terra del Sol Levante.

Gli anni avevano invece maltrattato Spinapolice, ingrassato a forza di tranci di pizza, di alici dorate e fritte sulla scamorza, Montevetrano rosso (prelevato personalmente dall’azienda agricola di Silvia Imparato a San Cipriano Picentino) e birra tracannati a garganella, sfogliatelle croccanti, struffoli d’oro, zeppole intinte nello zucchero finissimo, col sigaro a riposare momentaneamente tra le dita/wurstel macchiate d’ocra antico, e soprattutto grazie all’abitudine di spazzolare due giorni sì e uno no impressionanti spaselle di maltagliati conditi col ragù alla genovese. Quello che richiede cinque ore di meditazione incoperchiata a fuoco pipolante, sopra un giaciglio di cipolla e aromi, col pezzo forte dell’autentico girello lardellato.

Ma a lui andava bene così. Sua moglie Pieranna non insisteva nemmeno più a ripetergli di indossare i calzettoni elastici per la circolazione periferica, di consultare un dermatologo per sbarazzarsi delle verruche sulle guance e sulle mani, già in cuor suo stanca di sentirsi ferita per le attenzioni private e pubbliche alla ragazza che aveva messo radici dietro la cassa, lì al negozio: ragazza un corno, perché Esterina aveva varcato da un pezzo la soglia dei quarant’anni, accumulando tutta la volgarità boccalona e appariscente nel deretano largo, massiccio e basso, malamente contenuto nei jeans extra large, e nel pettone gelatina e bronzo, che debordava dalla scollatura senza concessione alla minima decenza. E quegli oscillanti orecchinoni d’oro battuto (uno dei regali di quel porco di suo marito)!

A Donato piaceva l’abbondanza, non sapeva che farsene di anime spiritate secche secche: aveva circuito la smilza e piatta Pieranna per condurla all’altare e mettere le mani su una dote di tutto rispetto, grazie alla quale aveva finanziato l’attività in via Medina.

Senza contare che gli faceva comodo essere finalmente irriconoscibile.

Chi mai avrebbe potuto collegarlo al giovanotto dalla equivoca reputazione, il volto tzigàno, il fringuello irrequieto e insaziabile, i modi rozzi e ruffiani di venticinque anni prima?

Aveva pagato il suo debito con la giustizia e si sentiva pacificato.

E poi aveva imparato che la gente dimentica in fretta: si spiccia a temperare la matita dell’interesse ipotecante e morboso, chiedendo con ansia polipnoica, e maniacale misurazione dell’iniquità, fatti nuovi (identici e diversi) sempre più scabrosi; delitti e scelleratezze alla cui empia cannola attingere, dissetarsi. Le regole inconfondibili del mostruoso consumismo della “nera”.

La sua era ormai una storia vecchia.

Egli stesso arrivava a dubitare che la cosa fosse veramente accaduta.

Ma ogni tanto ecco che saltavano fuori i coltelli, o qualunque cosa avesse attinenza con le lame, a dargli una feroce punzecchiatura alla cattiva coscienza, dopotutto non perennemente in latitanza. Scrollò le spalle e contenne un peto.

Dopo il caffè corretto, centellinò l’amaro della sua marca preferita, accese il sigaro e chiese il conto, pensando che lo avrebbe divertito molto mettere lo sgambetto al cameriere filiforme e caracollante, ingobbito dai malanni dell’esistenza sua, che pareva essere l’interprete ideale di uno spot efficace e spiritoso sulla brillantina e l’anticalcare per incrostazioni difficili.

Mandarlo a gambe all’aria e contemporaneamente scoreggiare in grazia di Dio per beata liberazione.

Come l’aveva sentito chiamare, quel rametto catarroso? Vincenzo? Vicienzo.   

Pagò con flemma il conto, non lasciò mancia, ruttò saporitamente, imboccò il suo costoso sigaro aromatizzato, e tornò sui suoi passi, per l’amata pennichella postprandiale.

L’aspettava una bella passeggiata verso la “casa dei corvi”.

L’avevano battezzata così, anche se in giro, e soprattutto dai cornicioni del  tetto, non s’era mai visto o sentito svolazzare uno di quegli uccellacci furbi e funerei.

Avrebbero dovuto chiamarla casa dei gatti, piuttosto, considerando la colonia di felini pidocchiosi e macilenti che infestavano il giardino della proprietaria, donna Rachela Fraternali, la…gattàra del posto.

Che doveva essere stata bella, molto, cinquant’anni prima, se i dipinti e le foto impiccati alle pareti della pensione in cornici bigie dicevano la verità ai suoi occhi resi miopi dal diabete.

Bella almeno quanto Mimì. Già, Mimì. La ragazza che egli aveva avuto modo di sfiorare soltanto quando era morta. Quando lui si era chinato per sollevarne il corpo dal seno squarciato…      Quando lui, Donato, l’aveva uccisa.

Incidentalmente.

Ci avevano creduto tutti. Avvocati, giornalisti, giudici, zecche di tribunale.

I medici. Il popolino.

Si era chinato su di lei. Respirava ancora. Lei lo aveva guardato, consapevole.

Un battito di ciglia.

Spinapolice sentiva ancora sotto i polpastrelli quella pelle. La pelle che aveva tanto sognato di toccare…Rabbrividì.

Se l’era cavata con poco. Omicidio colposo. E lui era incensurato…

 

Sovrappensiero giunse alla casa dei corvi.

Alcuni gattacci si bisticciavano tra di loro, altri facevano la cioppola con una busta di plastica. Spinapolice li odiava tutti.

Magari, prima di tornare a Napoli, avrebbe regalato loro una ricca pappa innaffiata di diserbante. Avrebbero visto che bisboccia! E ce n’era anche per la gattàra, quella bacucca dal collo di tacchino e dallo sguardo indisponente. Da qualche anno si fermava a pensione da lei, e, a parte la puzza di gatto, si trovava mica male: il posto era suggestivo, comodo, economico.

Tranquillo, una volta che ci si fosse fatto l’orecchio alla mattàna felina.

Donna Rachela era affaccendata a far conti, in cucina. Ma quando egli rientrò, la vide sbirciarlo in tralice, come se avesse da dirgli qualcosa. Evidentemente rinunciò, tornò alle sue carte unte, e Donato non stette lì a ricamarci sopra.

Salì ansando le scale, aprì la porta per buttarsi di peso sul letto dalla testiera che risaliva ad anni felici, e Mimì, balzando dalla poltrona, gli buttò le braccia al collo e gli stampò un bacio sulla bocca.

Aveva conosciuto Mimì…a un luna park, di quelli che non esistevano più.

L’avevano attirato i suoi capelli lunghissimi, lustri lustri, folti e leggeri, dai riflessi metallici, un’onda di velluto. E il corpo, il corpo burroso, le cosce tornite e svettanti. Il profumo di femmina pura, di sapone e frumento, sole e stoffa lacerata dagli aghi di un cespuglio, lì, nella terra del sisma, della luna bassa e delle janare.

 Le sue avances, prima caute, quasi circospette, via via più esplicite, erano state puntualmente respinte, con garbo prima, alla fine con stizza.

Cosa ci faceva, lì, quel pezzo di donna? Era sposata? In fuga da dove?

Nascondeva una storia torbida?

In altre circostanze Donato avrebbe lasciato perdere. Ma lei divenne presto un chiodo fisso, un tormentone, un’ossessione durante i sonni rauchi e madidi, schizzati di rabbia e frustrazione.

Quando circolò la voce che il direttore…l’impresario…(o tutt’e due le cose) di quel misero caravanserraglio di melanconici giocolieri, tiro al bersaglio, baracca dell’indovina e pagliacci apatici e opachi cercava manovalanza, si propose, per poter spiare meglio Mimì, carpire qualcosa del suo passato. Forse era stata una prostituta. Magari esercitava ancora, di stramacchio. Egli avrebbe potuto pagarla bene…se la donna fosse stata disposta a contentare i suoi capricci. E Donato ne avrebbe avuti. Eccome se ne avrebbe avuti!

Non ci fu nulla da fare. Intervenne Rocco, l’addetto alla gabbia delle scimmie, che lo allontanò brutalmente dalla donna, tra gli schiamazzi divertiti della troupe e di alcuni sfaccendati visitatori.

Donato fece marcia indietro, ma giurò a se stesso che avrebbe dato pan per focaccia alla puttana che lo aveva ferito al cuore…e all’amor proprio.

Così si ripresentò a Mimì con un gran mazzo di tulipani…o non erano giunchiglie?…cioccolato svizzero e scuse, e per ben sei mesi rigò dritto. Anzi, intrecciò una relazione con Milena, la piccola acrobata bionda, che in realtà non gli interessava affatto. In pubblico recitava la parte del devoto innamorato. Quando poteva, andava a sfogarsi con qualche vedova in menopausa, dalle cosce lattee e accondiscendenti, le vene varicose e la dispensa colma di soppressate, castagne del monaco e stagionata ricotta della Piana.

“ Donato!” –squittiva adesso, dopo venticinque anni, la stessa Mimì di allora, florida, pastosa e mora, in ottima salute. Viva.

Egli barcollò, sotto shock. Non riusciva a spiccicare una parola. Il cuore si mise a litigare con i polmoni e con la laringe, con lo stomaco e la vescica.

Ma era lei.

Lei, Mimì.

Come era possibile, santolazzaro?

Era tornata. Era in quella casa di gatti nauseabondi, coccolati da una senescente arpìa, complice o ignara di quel…di quell’assurdo fantasma! 

Mimì lo avvolse in un’occhiata compassionevole.

“ Non mi dici niente? Non importa. Capisco che la sorpresa ti ha tolto il fiato.

Che non sono, effettivamente, la benvenuta. Poverino. Sei tutto sudato…E il colletto della camicia è sporco.”

Cominciò a lisciargli la giacca, gliela sbottonò, sorridendo, ma solo di bocca, perché gli occhi…bèh, gli occhi…gli occhi brulicavano di cenere bollente.

“ E’ pazzia…” – avrebbe voluto esclamare lui, allontanando brutalmente da sé la morta. “E’ un incubo fottuto!” –avrebbe potuto strillare.

 Ma ebbe appena il tempo di realizzare che l’acuto dolore al petto non era provocato da un infarto sul nascere: era dovuto all’affondo preciso e fatale di una lama d’argento, inesorabile e veloce…più veloce, implacabile e altrettanto micidiale del coltello da lancio con cui aveva spaccato il cuore di quella sgualdrina, una sera di venticinque…forse trenta anni prima, nello spazio comunale messo a disposizione del parco di divertimenti itinerante, con la giostra, i ponies e la pesca della fortuna, il tirassegno, il gioco perverso delle lame scagliate contro la signorina cicciottella in piume e lamè, artisticamente appoggiata (e falsamente impaurita) alla sagoma di sughero e truciolato.

Tra poco avrai di che spaventarti sul serio, aveva ghignato tra sé e sé il giovane Donato, umettandosi le labbra.

“ C’era folla, quel venerdì di maggio. Tanta gente era accorsa da Lacedonia, Monteverde, Bisaccia…” – Mimì incombeva su di lui, trionfante gli si rivolgeva tuttavia con tono dolce e sommesso, mentre il sangue gorgogliava in gola, e diventava impossibile respirare, convulso e inutile annaspare – “ Tu ti eri riconquistato la fiducia di tutti…e quando ti avevano proposto quel numero assieme alla mamma, avevi colto l’occasione per vendicarti, facendo andare lisce le cose per decine e decine di volte, decine e decine di spettacoli…Fino a quell’ultima sera, al penultimo coltello. L’undicesimo…”

 

In una nebbia scarlatta, zuppa di paura e strinata di asfissìa, Spinapolice, riverso sul pavimento dalle mattonelle pentagonali sbiadite e consunte, che risalivano all’epoca della repubblica di Salò, percepì una piccola presenza, una soffice, curiosa, astuta presenza…

Dallo spiraglio della porta socchiusa, un gattuccio con la mascherina bianca si era insinuato, e senza più ricordo e timore delle passate pedatone che quel grosso umano era stato prodigo nel dispensare, si era accostato, vicino vicino, attratto dall’odore lacrimale dell’agonìa, da quello acre del piscio che si mescolava agli arabeschi purpurei del sangue impazzito.

“ Come recita, quell’adagio, Spinapolice? Chi di lama ferisce…” lo canzonava.

Mimì…o la sconosciuta figlia di Mimì…che sarebbe per lui restata senza nome…si sfilò dalle mani i guanti di lattice, si sbarazzò della vestaglietta da pochi soldi, tolse il rivestimento di cellophane dalle scarpe, ficcò tutto in una sporta di vimini e gli soffiò un rapido bacio dal palmo della paffuta mano bianca bianca. Quasi fosse l’ultima fidanzata: la più terribile.

“ Addìo, vecchio bastardo. Nel momento stesso in cui hai messo gli occhi su mia madre, per te hanno cominciato a scorrere i titoli di coda. Sei entrato in metàstasi. Hai firmato per il tuo annientamento.” – lo avvolse tutto nel suo odio, snudando i denti – “Adesso sai com’è difficile morire. Come sembra interminabile.”

 

Il gatto assaggiò dal pavimento un po’ di quel sangue, e lo paragonò alla pappa buona che invece lo aspettava giù, sul retro della casa, in cortile. Sfrecciò via, felpato.

Il sole accettò le fusa di una nuvolaglia di passaggio.

Nel torpido primo pomeriggio si udì il crocidare di una cornacchia.

Un’ombra istantanea, neroviolacea, si staccò dal tetto della casa.

Giù, al piano terra, la gattàra aveva appena riempito le ciotole per le sue creature, ma si fermò ad ascoltare.

Dopotutto, i corvi c’erano.

 

Dalla raccolta "PIANO INCLINATO" di Armando Saveriano