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Elisa Nicolaci

Elisa Nicolaci è nata a Palermo nel 1977.

Nel 1999 ha conseguito il diploma di scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Carrara (MS). Attualmente vive e lavora a Roma.

 

PRINCIPALI EVENTI ESPOSITIVI

 

2006 “Intrecci Mediterranei/La tela di Aracne”,

Museo del Tessuto di Gibellina, a cura della Fondazione Orestiadi di Gibellina (TP)

 

2006 Personale“Corpi Finti”, Galerie Im Griesbad, Ulm (Germany)

 

2007 Personale “Corpi Finti”, a cura di Alberto Weber,

Galleria Weber & Weber di Torino (TO)

Catalogo Weber&Weber

 

2009 “Dritto-Rovescio”, a cura di Do-Knit Yourself,

Triennale di Milano (MI)

Catalogo Electa

 

2009 "Miniartextile - E lucean le stelle”, a cura di Luciano Caramel, Chiesa di S.Francesco,Como (CO)

Catalogo JMD Como, con intervento critico di Luciano Caramel

 

2010 Doppia Personale, Kuma Galerie di Berlino (Germany).

2012 XII Edizione Premio “Centro-Periferia” , a cura di Federculture .Tempio di Adriano-Piazza di Pietra, Roma (RM)

 

2014 “Artisti di Sicilia, da Pirandello a Iudice”, a cura di Vittorio Sgarbi. Ex Stabilimento Florio delle Tonnare di Favignana (TP) Catalogo Skira

 

2015 " Ottocelle", mostra del Progetto Europeo Creative LAB Museo di Arte Contemporanea di Alcamo, Collegio dei Gesuiti di Alcamo (TP)

 

2015 "Centro Periferia Venice Edition" , Palazzo Flangini di Venezia. Cagtalogo a cura di Federculture

 

2015 Expo Arte Italina, a cura di Vittorio Sgarbi , Villa Bagatti Valsecchi di Varedo (MB)

 

2020 "900' da Pirandello a Guccione- Artisti di Siciia", a cura di Vittorio Sgarbi, Convitto Delle Arti di Noto (SR)

Intervista

Elisa, quando hai cominciato a realizzare le tue sculture in stoffa amavi definirle uomini- cose o

“corpi finti”,  vuoi dirci perché?

 

Nella maggior parte dei casi realizzavo  figure intere  a dimensione umana, fatte per stabilire un rapporto  di pari grandezza  con chi le osserva.   Ma erano congelate in posizioni  rigide da statue inanimate.

Da ragazzina osservavo gli oggetti  che avevo intorno, sedie, tavoli … e continuavo a domandarmi  come sarebbe stato essere un oggetto, uno di quei  fermi  testimoni silenziosi delle cose umane, della vita che scorre intorno.

Ho realizzato  le mie sculture di stoffa  cucendo i tessuti  sopra strutture metalliche molto leggere, facendo spesso riferimento ad alcuni aspetti iconografici della rappresentazione statuaria tradizionale,  lasciando risaltare la fisicità della materia tessile cucita artigianalmente come a voler sempre  indicare e segnare il limite tra realtà e finzione, contro il  quale la forma “rappresentata”,  quasi con un atto  volontario, tenta di lanciarsi. 

Le mie figure mettono in scena un mito che mi porto dentro dall’infanzia:  quello di mostrarsi consapevoli della propria natura di cose. Da questa inscenata consapevolezza in parte scaturiscono le espressioni ambigue e inquiete dei volti.

Da ragazzina avevo amato  moltissimo il teatro di figura, particolarmente l’Opera dei Pupi dove talvolta  le marionette venivano affettate in due dai colpi delle spade nemiche e quando i loro corpi si aprivano, il legno pieno di cui erano fatte appariva ben visibile: mi pareva così che queste marionette sapessero parlare oltre il  loro dramma  per dire che non c’era da preoccuparsi, erano di legno, erano finte e dunque immortali.  Come questo fosse possibile senza che il fluire potente del dramma venisse disturbato (piuttosto al contrario né era potenziato),  era per me un grande mistero, un mistero fascinoso. Il loro spettacolo sarebbe finito mille volte per mille volte ancora ricominciare.

Eppure, per  le mie bambole di stoffa,  diversamente, alludere alla consapevolezza di sussistere sospese tra realtà e finzione denunciando la propria artificialità non vuol dire la salvezza. Esse infatti non raccontano di sé  dentro una messinscena teatrale con un inizio ed una fine. Sono sculture a grandezza naturale, qualunque condizione di cui si fanno portatrici è perenne e la promiscuità col reale con cui condividono la terza dimensione non cesserà mai,  confermandole inesorabilmente come finte: questo nel mio lavoro scultoreo è il tema del dramma.

 La consapevolezza di appartenere al mondo del fantastico e del rappresentato, rivendicata dalle bizzarre situazioni nelle quali le forme  tessili dai colori vivaci  e dalle grossolane cuciture a volte si trovano, genera una visione o un sogno, secondo alcuni triste, secondo alcuni ironico o grottesco, secondo altri nostalgico, creato  dalle forme scultoree  stesse.

 

Dopo 15 anni di lavoro dedicato alla scultura tessile hai deciso di sperimentare con la pittura e le sculture sono diventate i tuoi soggetti,  come mai?

 

Doris Lessing parla di un luogo originario dal quale venendo al mondo siamo esiliati. E’ un’immagine che mi piace molto.  Pensando a questo è nato un altro mito su cui fantasticare guardando le mie sculture, questa volta da pittrice. Quando le vedo tutte insieme  penso ai sassolini  “posti” da Hansel e Gretel  lungo il cammino che li allontanava da casa.  Le mie sculture sono come quei sassolini, fissano, con la loro forma  le tracce di un “abbandono” originario,  sono segni per  ritrovare la strada,  la strada dalla quale vengo,  un certo luogo mitico dal quale sono e credo “siamo” stati allontanati con la nostra nascita.  L’aspetto vagamente nostalgico che in parte  recano  potrebbe derivare anche da questa funzione che ha in sé anche qualcosa di tragico ma anche di poetico.  Il fascino della mia scommessa come artista è evocare in altri l’interesse per questi miei privatissimi “segnapunti”, quasi che altri possano riconoscervi, senza saperlo, delle tracce del proprio abbandono. Le sculture come tracce  promettono di far ritrovare la strada per un ritorno “a casa”. Qualcosa proprio in questo forse genera bellezza.

Com’ è avvenuto il passaggio alla pittura?

 

In passato ho fatto alcuni esperimenti pittorici ma la scultura restava sempre il mio mezzo prediletto.

Qualche anno fa ho ritrovato le foto di una vecchia scultura che avevo distrutto poco dopo averla realizzata.  Una gigantesca bambola zoppa di stoffa protesa in avanti con il capo completamente rovesciato.

 Ho sempre rimpianto di averla distrutta,  era un lavoro molto forte e cosi pieno del mio vissuto del periodo.  Così ho deciso di provare a farla rivivere in un quadro.  Ma in un quadro le regole della figurazione cambiano del tutto.

 Le mie sculture dai colori saturi e dalle forme grezze e imprecise fuggono il rapporto con lo spazio circostante, un poco come avviene per le bambole giocattolo che per essere ambientate hanno bisogno di altri giocattoli, hanno bisogno di stare “nel loro mondo”. Il criterio con cui le realizzo non ha quindi nulla di installativo, esse devono tagliare lo spazio reale fuori da sé separandosene nettamente.

In un quadro  invece il rapporto con lo  spazio è imposto.  Dovevo creare una  scena per la mia bambola. Una scena tale da reggere il peso di quella figura cosi violenta e leggera nello stesso tempo.  Sapevo solo che nel quadro tutto avrebbe dovuto farsi “soggetto” intorno alla mia bambola,  altrimenti si sarebbero avuti punti deboli capaci di tradirne l’originale carattere tosto che  volevo  tanto ritrovare.

 

Così decisi di raffigurarla nella cavità oscura di un bosco pieno di rose rosse. Il risultato mi sorprese molto, era come se l’ambiente fosse una estensione del corpo della bambola , come disse un carissimo amico, sembrava che tra la bambola e il giardino ci fosse della consanguineità.

Capii che si trattava di un nuovo inizio.

Da allora non ho mai smesso di dipingere.

Ma nelle mie pitture compaiono sempre le sculture che considero le mie modelle. Alla fine di ogni lavoro pittorico torno alla scultura modellando per il quadro una cornice di stoffa che  ha il ruolo di far transitare lo sguardo e la coscienza  di chi guarda dalla mia finzione allo spazio reale, essa deve proteggere la mia finzione dal chiasso dello spazio circostante.  Quasi come farebbe una  di quelle scatole di giocattoli che ti lasciano vedere il contenuto. Quindi  dalla mia scultura parto e alla mia scultura arrivo.

Da dove  vengono le idee per i tuoi quadri?

 

 Non credo di partire veramente mai da idee, la mia idea in fondo è sempre la stessa:  ritrarre  le figure  che ho già inventato da scultrice, un poco come si faceva un tempo quando si ritraevano i personaggi illustri.

Ciascuna di queste figure  è  illustre e  ha uno spazio singolare nel mio cuore. Forse perché sono caduta io stessa nella trappola del loro racconto. Nessuna di loro è mai  stata  una sola  rappresentazione figurativa, sono tutte piene di anima,  il tempo passa e mi pare che loro si carichino di più anima ancora, alludendo in modo  intenso e commovente ad  un storia  che non è stata ancora tutta detta,  che deve ancora raccontare tanto.

Il compito dei miei quadri  è risalire a frammenti di questa  storia. Metto le sculture  in relazione con ogni altra cosa che incontro nella mia vita e che amo o ho amato in passato, come si compone un puzzle. 

In fondo l’amore è sempre uno e indivisibile e in ogni nuova forma, ieri come oggi , non fa altro che tornare. Per questo non mi preoccupo molto di quanto sia poco popolare scegliere fra cose di un ambiente artificiale non  attuale e a volte addirittura obsoleto. Il filo conduttore è la mia suggestione e non potrebbe essere diversamente. I riferimenti di  immagine sono solo pretesti per costruire le mie atmosfere. E le atmosfere non  parlano  a tutti allo stesso modo.  Non potranno mai arrivare a tutti.  Sono nata alla fine degli anni ‘70 del 900, il mio immaginario è pieno dei residui dell’ambiente artificiale novecentesco.

Per ora mi piace cercare in frammenti di cartoline illustrate o in interni  angusti di case vecchie, o in foto scattate da me in giro per Roma, e poi ancora in elementi naturali e sovra-storici come fiori e piante, o in finestre o bambole o foto di bambini reali …  In futuro chi sa? Mi basta che tutto quello che scelgo abbia capacità di reciproca relazione. Una relazione felice.

Come vedi cambiare la pittura dai primi esperimenti ai più recenti?

 

Ultimamente ho sperimentato un cambiamento di formato.  Per me si tratta di  un altro salto nel vuoto. Anche con la pittura amo rappresentare le sculture in rapporto uno a uno e rinuncio a queste proporzioni con grande dispiacere. Devo dire però che il piccolo formato sta portando aspetti nuovi. Nei miei quadri piccoli compare un elemento  favolistico che so essere molto mio ma che non era mai emerso così chiaramente prima. L’inquietudine propria delle sculture viene rimasticata  in un gioco di contrappunto con frammenti  romantici  di paesaggi o ambienti  dai colori pastello, le  tinte elementari e  accattivanti tipiche di certe illustrazioni che giravano quando ero ragazzina e sulle quali mi accorgo che devo avere fantasticato molto. 

Nei quadri piccoli il peso  e la sacralità , se cosi si può dire, dei corpi delle mie sculture si perde, esse compaiono per frammenti  il che per me vuol dire provare emotivamente  la difficile pratica di “disintegrarle” nel senso etimologico della parola: non sono più “tutte d’un pezzo” . Scendono dal loro piedistallo congelato e severo di sculture ed entrano in una dimensione narrativa dove si lasciano un poco cullare. I quadri trattano la dolcezza delle mie sculture oltre la loro indubbia  terribilità. Qualcuno mi ha detto che dentro ai quadri sembra tutto molto vero ma che un attimo prima di esserti  convito ti accorgi che invece  è tutto finto. Erano persone disponibili a lasciarsi trascinare.  Non si trattava di persone ciniche, mi rendo conto che questa pittura non è fatta per parlare a persone ciniche.

Ti dispiace che il tuo lavoro venga inscritto nell’ambito del surrealismo, perché?

 

Ammetto che il riferimento al surrealismo sia uno dei più immediati, eppure mi sento per esempio, molto lontana dalla combinazione di immagini ostentatamente oniriche. Se surrealismo deve essere, sia un surrealismo fatto della lirica di una favola raccontata piuttosto che di compiaciute ossessioni oniriche.

 

 Nei miei quadri il sogno è solo una parte possibile dell’esperienza  di chi guarda. La scena è composta da un inventario di oggetti  pesanti e significanti che sappiamo  essere cose prima ancora che rappresentazioni di cose.  Io conduco lo sguardo di chi osserva, dalla pedante verosimiglianza descrittiva della mia scultura  all’ appiattimento improvviso  di illustrazioni (o altri elementi) senza mai mentire con il virtuosismo tecnico. Ogni cosa che viene usata per comporre la mia immagine deve essere percepibile e riconoscibile per ciò che è,  mai solo per la scena che contribuisce a costruire nel quadro. Per esempio, se uso la suggestione di una cartolina si vedrà  la cartolina …

 

Ciò che non amo del surrealismo sono certi  rimandi simbolici o metaforici che troppo spesso  allontanano chi guarda  verso  un altrove intellettuale fatto di riferimenti  annidati nella coscienza.  Non è così che mi piace comunicare.  Per questo non mento e non sono mai troppo vaga o approssimativa nel descrivere ciò che mostro. Mi indispettisco molto quando di fronte ad un abbozzo iniziale qualche amico mi dice: “ bello, perché non lo lasci così?”

 

Poco tempo fa una signora,  di fronte ad un mio quadro dove compare una scultura dipinta in modo quasi iperrealista  accanto a due  bimbe completamente piatte  contornate  da una linea nera come nello stile dell’  illustrazione dalla quale avevo tratto spunto , ha commentato dicendo:

 

” quelle due bambine, è incredibile, sembrano vere!”  

 

La parte più grafica del quadro e quindi quella più esplicitamente finta era stata percepita come la più vera.

 

Nei miei quadri,  e così anche nelle sculture, qualunque racconto deve avvenire come  presenza  attuale di un accadimento.  Ma non vi possono essere accadimenti fuori dal reale. Le figure arrivano a chi guarda nell’attimo esatto  in cui la scena  accade  perchè  la scena dei quadri appare solo nell’attimo in cui essi vengono visti:  la mia scena è fatta per metà da chi guarda: è, per così dire,  “del guardare”. Nel momento in cui guardiamo, portiamo con noi tutta la consapevolezza di appartenere al reale e questa consapevolezza a mio modo di vedere  non deve essere mai ostacolata o contraddetta dalla visione perché sta a garanzia del fatto che, mentre guardiamo, ciò che ci sta accadendo è nel reale . Così e solo così proprio  il senso di ciò che è reale può diventare irrilevante e può quasi vacillare davanti al fascino del fantasticare. Vacilla in nome di una suggestione che non lo ha mai tradito. In questo senso anche la più figurativa delle rappresentazioni  resta in certo qual modo astratta.